Controlli e liti

Transfer price, il campione ridotto blocca l’avviso

All’esame della Ctp di Milano le procedure per lo svolgimento delle analisi di benchmark

(Adobe Stock)

di Massimo Bellini e Enrico Ceriana

La Ctp di Milano ha ribadito alcuni importanti principi che devono essere seguiti nello svolgimento delle analisi di benchmark. I punti affrontati riguardano codici attività, numerosità del campione e versione del database e sono contenuti nella sentenza 4749/1/2019 (presidente Roggero, relatore Chiametti).

La controversia nasce da una contestazione per gli esercizi 2013 e 2014 sui costi di acquisto della contribuente dalla propria casa madre tedesca. La società italiana svolge attività di distribuzione dei prodotti del gruppo nel mercato italiano e, in via residuale (circa il 10%), svolge attività di intermediazione tra la controllante e i clienti finali per la quale percepisce delle provvigioni. L’ufficio, dopo aver scomputato dal conto economico i valori che riteneva attribuibili all’intermediazione, determinava un margine per l’attività di distribuzione negativo che veniva rettificato sulla base di una propria analisi di benchmark.

I giudici milanesi hanno accolto il ricorso della contribuente. Tra le varie motivazioni dell’annullamento dell’atto impositivo sono stati ribaditi tre concetti chiave in relazione alle analisi di benchmark, già espressi in passato dalla giurisprudenza.

1. Il primo punto riguarda la numerosità dei comparables. Il campione era infatti composto da soli quattro soggetti. Ciò ha portato a ritenere che non potesse costituire un valido termine di paragone ai fini del transfer pricing. In senso analogo si veda la Ctp Milano 4904/25/2016 che ha ritenuto insufficiente un campione di quattro soggetti, Ctp Varese 463/5/2016 che ha ritenuto insufficiente un campione di sei società e Ctr Lombardia 2556/11/2019 che ha evidenziato che un set di tre soggetti non è rappresentativo del mercato.

2. Il secondo punto riguarda il database. L’ufficio aveva, infatti, utilizzato il software Aida, che era aggiornato al 2017, e non ai periodi 2013 e 2014, anni di imposta accertati. L’incoerenza temporale della release della banca dati, utilizzata impropriamente dagli organi accertatori, ha determinato un errore che ha pregiudicato l’attendibilità dell’intera analisi. In senso analogo Ctp Milano 7996/40/2014 e Ctp Milano 5233/13/2017 secondo cui «…non è accettabile che una verifica fiscale…sia condotta dai verificatori utilizzando dati e informazioni nonché un gruppo di potenziali comparables che mai la ricorrente avrebbe potuto trovare tenuto conto che la fonte dei dati utilizzati dai verificatori è di ben tre anni circa successiva rispetto a quella che risultava disponibile alla data di presentazione delle dichiarazione».

3. L’ultimo punto, anch’esso già evidenziato in giurisprudenza (si veda, ad esempio, la sentenza 4904/25/2016 sopra citata) riguarda i codici attività Ateco da utilizzare per le ricerche. L’ufficio, infatti, non aveva selezionato il codice della società, ma ne aveva adottato uno differente senza motivare tale scelta. Secondo i giudici era di tutta evidenza che il codice utilizzato dai verificatori non poteva rappresentare il settore di appartenenza della ricorrente per cui non era possibile confrontare la redditività della stessa con un benchmark composto da soggetti che operano in un mercato diverso.

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