Imposte

Non imponibilità alla prova documentale

di Matteo Balzanelli, Massimo Sirri e Riccardo Zavatta

Le cautele che chi opera con soggetti esteri è tenuto a osservare per evitare contestazioni, sono sempre maggiori, soprattutto quando si tratta di operazioni complesse per numero di soggetti partecipanti o per le particolari modalità di svolgimento. Ciò non toglie che la soglia d’attenzione debba restare elevata anche nelle operazioni più semplici, come nelle “normali” cessioni intracomunitarie.

Lo ricordano i più recenti interventi della Cassazione. Con l’ordinanza 9717/2018, i giudici contestano il regime di non imponibilità Iva di operazioni per le quali erano stati esibiti i documenti di pagamento e le dichiarazioni degli acquirenti in cui era attestata la ricezione della merce nel Paese di destinazione. Come per le cessioni all’esportazione, sarebbe tuttavia da escludere la rilevanza di documentazione di origine privata (fatture e documenti bancari), potendosi accettare, a fini di prova dell’arrivo della merce a destino, solo documenti certi e incontrovertibili quali (ancorché ciò possa valere solo per le esportazioni) le attestazioni di pubbliche amministrazioni del Paese d’importazione. Secondo la sentenza, altri documenti potrebbero servire allo scopo. Per esempio, i contratti commerciali fra le parti e la lettera di vettura Cmr (che, però, è anch’essa di origine privata) verso la quale, peraltro, la stessa Corte ha mostrato qualche diffidenza (sentenza 19747/2013), purché integrata con i dati della spedizione e le firme di cedente, vettore e cessionario.

Ancor più preoccupanti sono le indicazioni fornite dalla sentenza n. 21102 del 24 agosto scorso, avente per oggetto cessioni intracomunitarie nei confronti di soggetti spagnoli di cui pure era stata verificata l’effettiva esistenza e operatività in Spagna, oltre che il possesso della partita Iva in tale Stato, ma che non risultavano iscritti al Vies. Nonostante che i giudici affermino di condividere i principi consolidati della giurisprudenza unionale e interna (che paiono di altro tenore), dopo aver ribadito che il cedente nazionale non è tenuto a specifiche attività investigative dopo la consegna dei beni al vettore del cliente (vendite ex works) e pur potendosi dimostrare la buona fede dell’operatore, la sentenza conclude che la cessione è riqualificabile come imponibile Iva, non avendo il contribuente dimostrato, nemmeno in sede processuale, «l’avvenuto pagamento del tributo da parte del cessionario».

Se anche la Corte di giustizia europea sottolinea i doveri di diligenza dell’operatore commerciale professionale (sentenza nella causa C-21/16), occorre tuttavia osservare come, diversamente da quanto afferma la sentenza 21102/2018, l’attività di verifica e controllo da parte dell’operatore non possa logicamente spingersi fino al punto di dover accertare il regolare assolvimento dell’imposta da parte dell’acquirente nel proprio Stato, pena la lesione dei principi comunitari di certezza del diritto e proporzionalità.

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