Professione

Equo compenso: la legge rischia l’effetto boomerang

di Andrea Dili

La proposta di legge sull'equo compenso in discussione in questi giorni alla Camera ha il merito di riaccendere la luce sulle condizioni di lavoro dei professionisti italiani, un universo, tra iscritti alle Casse professionali e all'Inps, di oltre 1,5 milioni di persone.

Il dibattito sull'equo compenso nasce e si sviluppa partendo dalla constatazione che questi lavoratori, nonostante rappresentino la parte più scolarizzata e “formata” del Paese, facciano fatica a vedersi riconoscere una remunerazione proporzionata alla qualità e alla quantità della prestazione resa. Tale diritto, peraltro, viene spesso eluso sia da una Pubblica amministrazione che, complice la penuria di risorse finanziarie, ricerca prestazioni qualificate a basso prezzo (eclatanti sono i casi in cui vengono richieste a titolo gratuito), sia ogni qual volta vi sia un rilevante squilibrio dei rapporti di forza contrattuale a favore dei committenti.

A ben vedere si tratta di una questione non proprio marginale, considerando che quasi la metà dei professionisti iscritti alle Casse di previdenza autonome consegue redditi inferiori a 20mila euro. Problematica ben conosciuta dalla classe politica se è vero che negli ultimi anni proposte di legge e ordini del giorno volti a introdurre una misura di equo compenso sono stati sostenuti da tutte le forze parlamentari.

Per tali ragioni la proposta presentata alla Camera avrebbe potuto rappresentare l'occasione per sanare finalmente tale vulnus. Purtroppo, se il testo è sicuramente ben costruito riguardo alla definizione di equo compenso – strumento finalizzato a intervenire, contrariamente alle vecchie tariffe professionali, soltanto dove vi sia un marcato squilibrio nei rapporti di forza contrattuale – e alla platea dei professionisti coinvolti (ordinisti e non), l'ultima versione arrivata in aula presenta elementi così rilevanti di criticità da stravolgere la stessa positiva funzione della misura.

Se, infatti, già desta perplessità la generica attribuzione ai Consigli nazionali degli Ordini della legittimazione ad agire in via giudiziaria in caso di violazione degli obblighi sull'equo compenso, appare paradossale un impianto che invece di multare i committenti inadempienti sanziona, sempre per mezzo degli Ordini, il professionista che accetta un compenso diverso da quello stabilito dai parametri. Come se in caso di accertamento di lavoro in “nero” venisse sanzionato il lavoratore sfruttato in luogo del committente disonesto.

Ancora più dirompente potrebbe risultare la prescrizione che permette alle singole imprese di concordare con gli Ordini compensi con presunzione di equità. Una norma che oltre a limitare la libertà di negoziazione privata, in contrasto con la giurisprudenza europea, finirebbe per ribaltare la stessa funzione degli Ordini professionali che sono enti di garanzia della fede pubblica e non organizzazioni di natura sindacale.

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