Il CommentoImposte

La scommessa che si può vincere: una vera costituente per il fisco

Il Recovery Plan pretende dall'Italia la capacità di riformare radicalmente anche il sistema fiscale

di Salvatore Padula

Il fisco incassa ogni anno circa 520-530 miliardi di euro. Più in dettaglio, nel 2019, ultimo periodo con dati completi sui dodici mesi, i contribuenti hanno pagato 252 miliardi di imposte dirette (191 di sola Irpef); 219 miliardi di indirette (136 di sola Iva) e 59 miliardi di tributi territoriali (25 di Irap). Circa 100-105 miliardi di euro – anzi persino qualche decina in più, per via dei criteri di rilevazione – sono invece sfuggiti al fisco e rappresentano quello che gli esperti definiscono il tax gap: imposte evase. Abbiamo un potenziale di 650-660 miliardi di euro e ne abbiamo incassati 530.

Questi numeri spiegano bene i motivi per cui le tematiche legate alla fiscalità siano così cruciali nel dibattito sui futuri assetti del Paese. E non stupisce che la riforma del fisco sia destinata a diventare uno dei pilastri dell’azione del nuovo governo. In attesa di conoscere le reali intenzioni di Mario Draghi, che verranno presumibilmente dettagliate sia nel programma del suo Esecutivo sia nella versione definitiva del Recovery Plan, il progetto - a quanto risulta - sembra ruotare intorno a un robusto intervento di riordino della tassazione delle persone fisiche in chiave progressiva (come è naturale, considerato l’articolo 53 della Costituzione).

Si tratta di vedere – e lo si capirà a breve, anche se i primi indizi non inducono proprio all'ottimismo – se lo scenario politico che si va componendo, con uno schieramento parlamentare molto ampio a sostegno del governo (ma, certo, non altrettanto coeso), non consenta di azzardare un’operazione più ambiziosa: una riforma fiscale complessiva, non limitata all’Irpef, destinata a modernizzare il sistema nella sua interezza. Una riforma condivisa tra forze politiche disposte a mediare tra loro per trovare i necessari compromessi. Se la cosa non suonasse enfatica (e forse utopistica), si potrebbe persino immaginare una specie di “Costituente fiscale”.

A ben vedere, il Recovery Plan proprio questo pretende dall’Italia: la capacità di cambiare, di riformare radicalmente ciò che da decenni attende di essere riformato. La burocrazia; la giustizia; la scuola e molto altro ancora. Con il sistema fiscale che pure dovrà fare la sua parte. In molti ambiti.

Prendiamo le semplificazioni: su adempimenti e scadenze non si può non ricordare quel che dice ogni anno il Doing Business della Banca mondiale: nel 2020, l’Italia si è collocata al 128° posto (su 190) per peso degli adempimenti fiscali. Le nostre Pmi non solo sono tra le più tartassate – il total tax rate sfiora il 60% degli utili – ma devono anche dedicare agli adempimenti circa 240 ore di lavoro all’anno (ovvero ulteriori costi). Su certezza e stabilità delle norme, basti dire che il Testo unico sui redditi ha subito quasi mille modifiche dal 1988 a oggi. Circa 27 ogni anno, alle quali vanno aggiunte le disposizioni – e sono numerose – che pur impattando sulle imposte dirette non sono state collocate nel Tuir: il caso più citato è quello della cedolare sugli affitti.

Ancora, c’è un fronte che riguarda le imprese, anche le multinazionali e non solo quelle del web. Non meno attenzione richiederebbe la tassazione dei consumi, visto che l’Europa ci chiede da anni di riequilibrare il carico tra indirette e dirette (lavoro e impresa). In ogni caso, l’Iva – la seconda imposta per importanza e la prima per evasione (35 miliardi di tax gap) – si barcamena in un ginepraio di regimi speciali, esenzioni, esclusioni ed è articolata su quattro aliquote (4, 5, 10 e 22%, applicate spesso senza criteri comprensibili), cosa che rende più facile la vita agli evasori.

E si può continuare. L’amministrazione finanziaria e il rapporto con i contribuenti; le regole dell’accertamento; della riscossione (mille miliardi di euro di cartelle fiscali in larga parte inesigibili); il doppio binario del sistema sanzionatorio, amministrativo e penale (e del Dlsg 231/2001); la giustizia tributaria; una strategia chiara per il contrasto dell’illegalità fiscale.

Senza dire di quelle criticità – dall’eccesso di tax expenditures all’erosione della base imponibile, dalla tassazione delle piccole attività economiche ai prelievi immobiliari e patrimoniali più o meno occulti – che verranno affrontate nell’ambito della riforma dell’Irpef.

Durante gli ultimi decenni, il sistema fiscale italiano, con poche eccezioni, è passato attraverso una lunghissima serie di interventi e riforme poco coerenti, quando non totalmente estemporanei. Interventi fatti per raccattare gettito e talvolta per inseguire il consenso elettorale. Oppure pensati solo per modificare e azzerare ciò che era stato fatto dal governo precedente.

Tra i (molti) pre-requisiti di una “vera” riforma fiscale c’è sicuramente la necessità di condivisone del progetto tra le forze politiche. Una riforma impone ai contribuenti sforzi operativi e procedurali (quindi maggiori costi). Per imprese e professionisti, nulla è peggio dell’incertezza, nulla è peggio che affrontare le difficoltà di un cambiamento sapendo che un paio d’anni dopo tutto verrà superato.

Il momento attuale offre forse un’opportunità che difficilmente si potrà presentare in futuro, con i partiti “costretti” a condividere molte scelte sul futuro del Paese. Sarebbe un peccato non sfruttare questa congiunzione astrale per provare l’impossibile e riscrivere le regole del fisco.