Controlli e liti

Il nuovo Fisco riparte dalle emergenze ma prenota una stagione di riforme

di Marco Mobili e Salvatore Padula

Il Fisco riparte dalle emergenze: aliquote Iva, taglio delle tasse, contrasto dell’evasione. Oggi si apre la due giorni di confronto parlamentare che, con il voto di fiducia prima della Camera e poi del Senato, porterà il governo Conte-bis alla piena operatività. E l’eredità della “questione tasse” fa già sentire il suo peso e richiede un’attenzione speciale. Non a caso, nel programma del nuovo esecutivo giallorosso che verrà illustrato dal premier Giuseppe Conte, i capitoli dedicati al fisco occuperanno ancora una volta una posizione di rilievo. La prima emergenza è quella dell’aumento delle aliquote Iva che scatta il 1° gennaio 2020: una partita da 23,1 miliardi (che potrebbero diventare 28,7 nel 2021).

Miliardi necessari per la sterilizzazione dell’aumento Iva che – almeno nella narrazione della nuova coalizione di governo – è stato indicato come uno dei fattori che hanno portato alla nascita del nuovo esecutivo. Al secondo gradino, archiviata la “simil flat tax” di fattura leghista, c’è l’impegno di rendere più pesanti le buste paga dei lavoratori, individuando sia le risorse disponibili sia la strada migliore per farlo. Infine, c’è un ulteriore versante – quello del contrasto dell’evasione – sempre molto delicato da affrontare specie quando, come avviene ora, si è appena usciti da una stagione di condoni e sanatorie particolarmente generosa.

Sullo sfondo altri temi altrettanto sensibili, dalla web tax alle semplificazioni, dalle misure per le imprese al destino dell’imposta fissa al 15% per le piccole partite Iva, che dal 2020 allungherà il suo raggio d’azione fino a 100mila euro di volume d’affari, con aliquota al 20% sulla parte che eccede i 65mila euro.Le scelte del neo ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, e del premier Conte dovranno esser rapide, sapendo che dal loro esito dipenderà in buona parte il primo giudizio, dei cittadini oltre che dei mercati e dell’Europa, sull’operato del nuovo governo.L’urgenza di decidere non obbliga a fare quello che tutti si attendono. È evidente, sotto un profilo generale, come lo scoglio principale sia quello delle risorse. Il nostro Paese deve contenere entro limiti credibili il ricorso all’indebitamento. Altrimenti si rischia di scivolare nuovamente nella dimensione “anti” – antiEuropa, antiMercati, antiTutto – che aveva fortemente segnato l’attività del precedente esecutivo, con le conseguenze che abbiamo visto.

Che fare, allora? Forse si deve provare a guardare oltre le emergenze. E rilanciare la “questione fiscale” in modo più organico, più completo. Per la prima volta, dopo almeno due anni di scontri e propaganda, il confronto sul fisco ha la grande opportunità di uscire dalla retorica della campagna elettorale permanente dove era confinato (in verità, in compagnia di altri trend topic, dall’immigrazione alla sicurezza). Si potrebbe scoprire che interventi meno estemporanei, meno improntati alla soluzione del singolo problema, possono consentire di raggiungere obiettivi più ambiziosi. Con la nostra pressione fiscale, non è immaginabile che nuove tasse possano finanziarie le misure allo studio (tra l’altro: dire subito “no alla patrimoniale”). Ma il sistema fiscale, si pensi all’Iva oppure alle tax expenditures, offre molte opportunità per rimodulare il prelievo, per renderlo meno ingiusto, più efficiente, a condizione che le risorse risparmiate servano per ridurre altre tasse. E per non ritrovarsi nel 2021 a dover nuovamente gestire una clausola di salvaguardia nel frattempo cresciuta fino a 28,7 miliardi di euro. Forse ci si deve ragionare.

1. Sulle aliquote Iva una manovra selettiva

Bloccare gli aumenti dell’Iva». Obiettivo chiaro. Anche a tutti i costi? Certo, i numeri sono impietosi - 23,1 miliardi di clausola di salvaguardia per il 2020 e, in caso di rinvio, ben 28,7 per il 2021 - e fanno capire perché la sterilizzazione dei rincari Iva sia considerata una priorità. Ci si deve però chiedere se questa sia l’unica strada possibile. È ovvio che oltre 23 miliardi di maggiore Iva spaventino tutti. Ma se il conto fosse più ragionevole? Valutando bene il problema – come il ministero dell’Economia certamente sta già facendo – si potrebbe scoprire che esistono spazi per una manovra parziale sull’Iva, in moda da ridurre l’impatto della correzione necessaria per evitare gli aumenti “integrali” (e anche per ridurre l’impatto della clausola residua per il 2021).

Le risorse risparmiate potrebbero essere utilizzate in chiave crescita, per esempio, rendendo ancora più ampia la riduzione dell’Irpef sui redditi da lavoro. In questo modo, si farebbe anche un passo verso lo spostamento della tassazione dalle imposte dirette (le persone) alle indirette (i consumi), che Ue e Ocse chiedono da tempo. Una manovra sull’Iva, puntuale e selettiva, servirebbe anche a eliminare alcune storture. Due suggestioni: le aliquote sono quattro (4, 5, 10 e 22%) e, pur tra vincoli e tabelle europee da rispettare, avrebbero bisogno di una razionalizzazione.

Più volte sono state segnalate situazioni al limite della bizzarria: l’origano secco paga il 5%, quello in vaso il 22. La bibita ordinata al bar sconta il 10%, la stessa bibita acquistata al supermarket arriva al 22. Inoltre, non si contano i regimi speciali, le esenzioni, le esclusioni (da ultimo quella di circa 2 milioni di soggetti che hanno scelto il forfait per ricavi e compensi fino a 65mila euro, dall’anno prossimo fino a 100mila euro): un vero ginepraio che colloca l’Iva tra le imposte che maggiormente beneficiano di agevolazioni. Forse non tutte sono ancora necessarie.

2. Tagli mirati per alleggerire la stessa Irpef

«Sfoltire le spese fiscali equivale ad aumentare la pressione fiscale». È questo il mantra che da quasi un decennio – la prima “riflessione” sulla razionalizzazione delle tax expenditures risale al 2010, quando ministro dell’economia era Giulio Tremonti – ha impedito qualsiasi intervento per ridurre le agevolazioni. Anzi, non c’è stato esecutivo che non abbia fatto il contrario: introdurne di nuove, invece di sfoltire le vecchie.

Ora, il governo M5s-Pd ci riproverà. Tagliare le agevolazioni fiscali resta un’operazione complessa. Che richiede una forza politica non indifferente, anche per resistere alle pressioni delle lobby. Si tratta di un’operazione che ha “costi politici” non indifferenti, come ha avuto modo di scrivere sul Sole 24 Ore Mauro Marè, che guida la commissione che predispone il rapporto annuale sulle tax expenditures. Il discorso è articolato perché se da un lato è evidente che un sistema nel quale convivono centinaia di agevolazioni determina un’erosione di imposte difficilmente accettabile, dall’altro è anche vero che molte agevolazioni mantengono una loro ragion d’essere.

Le spese fiscali possono “aiutare” la progressività. Possono stimolare il conflitto di interessi (ristrutturazioni edilizie), possono incentivare particolari consumi (bonus energetici) e altro ancora. Per contro, possono avere un effetto regressivo: in genere ne beneficiano i contribuenti più ricchi e il meccanismo dell’incapienza, esclude da ogni risparmio le fasce a reddito basso. Operazione complicata, quindi, ma qualcosa si dovrà fare. Forse cominciando a dire che non (sempre) tagliare le tax expenditures equivale ad aumentare la pressione fiscale. Non se i risparmi vengono rimessi in gioco per alleggerire l’Irpef stessa.

3. Cuneo fiscale, buste paga più pesanti in tre opzioni

Ridurre l’Irpef sui redditi medio-bassi. Ampliare gli “80 euro”, allargando la platea dei beneficiari e aumentando l’importo del bonus. Limare il cuneo fiscale-contributivo, riducendo la distanza tra la retribuzione complessiva di un lavoratore e il netto che si ritrova in busta paga. Tre strade possibili per un unico obiettivo: alleggerire il prelievo sui dipendenti con redditi medio bassi. Molto dipenderà, certo, dalle risorse che si vorranno/potranno mettere in campo (e anche da dove queste risorse arriveranno).

La scelta più semplice sembra il potenziamento degli “80 euro”: pur con i limiti e i difetti di un bonus anomalo – si pensi ai contribuenti incapienti oppure ai pensionati che ne sono esclusi – il sistema pare poter essere facilmente implementato. Per contro, però, la strada più razionale dovrebbe essere quella di agire direttamente sull’Irpef, che necessita di profonda manutenzione, sia per ricondurla ai principi della progressività sia in chiave di semplificazione (deduzioni, detrazioni, oneri ecc ecc).

In questo caso, il vantaggio sarebbe quello di avviare, anche per fasi successive, una vera riforma di un’imposta che - tra regimi sostitutivi e flat tax per gli autonomi – è diventata sempre più l’imposta sul lavoro dipendente e sulle pensioni. Il limite è che manovrando le aliquote più basse si determinano effetti anche sui redditi più elevati (e anche su chi dipendente/pensionato non è). Più complesso un intervento sul cuneo, se non altro perché nel programma si dice che il beneficio deve andare interamente al lavoratore: i contributi a carico del dipendente sono quelli per la pensione (tranne qualche eccezione), ma fiscalizzare questa quota non sembra una strada percorribile, anche perché finirebbe per trasmettere l’idea sbagliata che alla nostra pensione penserà lo Stato.

4. Controlli mirati (non il carcere) contro l’illegalità

Dopo una stagione di condoni e sanatorie di ogni tipo, non è facile tornare a parlare di contrasto dell’evasione. Le linee programmatiche del nuovo governo suggeriscono alcuni indirizzi di massima quali l’inasprimento delle pene, anche detentive, e il rafforzamento della tracciabilità delle transazioni commerciali, anche tramite i pagamenti elettronici obbligatori. In primo luogo, non si può non notare il rischio di cortocircuito: fu proprio il governo Renzi ad aumentare le soglie di punibilità e fu lo stesso esecutivo a elevare da 1.000 a 3.000 euro il limite di utilizzo del contante.

Ora siamo al dietrofront, sul quale invero il M5s insiste da tempo. Sulle sanzioni penali, tuttavia, occorre ricordare che neppure la legge “manette agli evasori” degli anni ’80 rappresentò un freno all’illegalità. Le segnalazioni del Fisco contribuirono solo a ingolfare le Procure, con fascicoli che puntualmente finivano in prescrizione. In base ai dati del ministero della Giustizia, con le nuove e più generose soglie ora in vigore si registrano circa 300-400 condanne all’anno su circa 6.000 procedimenti definiti, 200-250 in meno di quanto accadeva con le soglie più basse in vigore fino al 2015.

Minacciare il carcere per gli evasori potrà forse avere qualche effetto a livello mediatico, ma aiuta poco a combattere l’evasione. Non foss’altro per la limitata probabilità di subire un controllo. Il contrasto dell’illegalità ha bisogno di un’amministrazione efficiente, che agisca sulla base di scelte politiche costanti nel tempo, e che abbia a disposizione strumenti efficaci. Il contrasto dell’evasione si fa senza caricare i contribuenti di adempimenti inutili e costosi. Si fa con norme chiare e semplici da applicare, che riducano sia le incertezze degli operatori sia gli spazi di interpretazione dell’autorità fiscale.

5. Imprese, norme certe per rilanciare gli investimenti

L’ultimo anno, sotto il profilo fiscale, ha lasciato il segno sulle imprese. Pur con la parziale correzione di rotta arrivata con il decreto crescita (tra le altre misure: reintroduzione del superammortamento del 130% dal 1° aprile; progressiva riduzione dell’Ires sugli utili reinvestiti; incremento della deducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali, che sarà totale dal 2023), il mondo produttivo ha subito alcuni pesanti colpi con la manovra per il 2019. Si è perso tempo sul superammortamento; l’iperammortamento è stato comunque limitato; è stata allentato il programma Industria 4.0; il bonus ricerca oltre a essere stato ridotto è anche di complicatissima applicazione; per tacere della soppressione dell’Ace, l’aiuto per il rafforzamento patrimoniale delle imprese, e anche dell’Iri, l’imposta che avrebbe tassato in modo simile all’Ires le imprese individuali e le società di persone. Una parte dell’aumento della pressione fiscale a carico delle imprese è servita per finanziare la flat tax per le piccole partite Iva, che dal 2020 si dovrebbe ampliare fino a 100mila euro di ricavi e compensi, che per la quota che supera i 65mila saranno tassati al 20% (15% fino a 65mila euro).

Riavvolgere il nastro potrebbe essere un’opzione. Sull’Ace, per esempio. Ma soprattutto si deve creare un quadro di stabilità delle regole dentro il quale le imprese possano modulare le loro scelte: nessuno investe se ha la percezione che tutto sia sempre destinato a cambiare (in peggio). Questa deve essere la vera discontinuità del nuovo governo: garantire certezza del diritto agli operatori. Le linee programmatiche sono improntate all’essenziale, con un generico rilancio del piano Impresa 4.0, insieme a interventi per le Pmi. Un po’ poco, considerato che nei prossimi mesi il rallentamento in atto dell’economia potrebbe prendere direzioni più critiche.

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