Adempimenti

Importazioni, la correzione segue l’operazione base

di Matteo Balzanelli, Pier Paolo Ghetti e Massimo Sirri

Quando è necessario correggere la base imponibile di un’importazione, le modalità d’assolvimento dell’Iva dovrebbero “ripercorrere” la procedura dell’operazione originaria. Così, se l’imposta è stata assolta in dogana, anche il maggior tributo andrà versato nello stesso modo. Il principio dovrebbe valere se l’Iva è stata liquidata in inversione contabile, come nel caso di beni immessi in libera pratica con introduzione in deposito Iva.

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Le sanatorie in importazione
Innanzitutto, va ricordato che per rimediare a inesattezze, omissioni o errori commessi in fase d’importazione (per esempio, la dichiarazione di un prezzo dei beni inferiore a quello effettivo riconducibile a un errore), la dogana può procedere d’ufficio o su istanza di parte entro tre anni dalla data in cui l’accertamento è divenuto definitivo. È la revisione dell’accertamento doganale di cui all’articolo 11, Dlgs 374/1990.

La competenza è delle Dogane, in linea con le indicazioni della prassi (risoluzioni 505272/1987 e 228/E/2007), trattandosi del «completamento della procedura amministrativa di accertamento» doganale. In esito a un controverso percorso interpretativo (decisiva sul punto la sentenza Ue C-272/13), è tuttavia chiaro che l’Iva all’importazione è e resta un tributo interno, essendo il rinvio alle leggi doganali sui diritti di confine (articolo 70, Dpr 633/72) operato solo quoad poenam (Cassazione, sentenza 28251/2015).

Saranno quindi “doganali” le sanzioni, con effetti potenzialmente assai penalizzanti (in base all’articolo 303 del Dpr 43/1973, si può arrivare a dieci volte i maggiori diritti). Di contro, è possibile sottrarsi alle sanzioni se la revisione dell’accertamento avviene su richiesta di parte (articolo 20, comma 4, legge 449/97), purché la procedura sia azionata prima dell’inizio di accessi, ispezioni, verifiche, il cui avvio non ostacola invece il ricorso al ravvedimento operoso, applicabile anche ai tributi doganali (Iva all’importazione compresa, essendo di competernza doganale).

In ogni caso, in relazione all’Iva assolta a seguito di ravvedimento o di revisione dell’accertamento (d’ufficio o su istanza di parte) spetta il diritto di detrazione (circolare 35/E/2013 e, recentemente, risposta a interpello 192/2019), da esercitare, in caso di revisione dell’accertamento, entro il termine “biennale” dell’articolo 60, comma 7, Dpr 633/72.

Depositi Iva
La questione è più complessa se la correzione dell’errore riguarda beni di provenienza extracomunitaria immessi in libera pratica, introdotti in deposito Iva senza pagamento dell’imposta (ma, eventualmente, con il versamento dei soli dazi, se dovuti) e successivamente estratti con applicazione del reverse charge a norma dell’articolo 50-bis, Dl n. 331/93.

A livello di principio, non si vedono ostacoli a che la regolarizzazione, soprattutto nei casi in cui non sono dovuti dazi (aliquota zero), possa avvenire seguendo le stesse regole adottate al momento dell’estrazione.

Questa, del resto, è la soluzione della sentenza C-272/13, in cui (addirittura) a fronte della mancata introduzione dei beni in deposito Iva e, dunque, con l’imposta che doveva essere pagata in dogana, è stata riconosciuta la legittimità dell’assolvimento del tributo in inversione contabile (con applicazione della sanzione del 30 per cento; circolare 16/D/2014). E nella stessa linea è la risoluzione 55/E/2017.

Trattando di beni i cui corrispettivi sono soggetti a variazione (nella fattispecie, a causa di fluttuazione dei prezzi di listino), le Entrate affermano infatti che, in caso di variazione successiva all’estrazione dal deposito Iva, chi estrae ha l’obbligo, in caso di aumento del prezzo (facoltà, in caso di diminuzione), di operare la variazione ai sensi dell’articolo 26, Dpr 633/72, e che «la modalità di rettifica seguirà la modalità con cui è stata assolta l’Iva in fase di estrazione».

Se i beni sono stati estratti applicando il reverse charge, pertanto, al ricorrere di una delle ipotesi di cui all’articolo 26, Dpr 633/72, compreso quindi il caso dell’errore, dovrebbe essere possibile correggere la base imponibile con un’autofattura integrativa obbligatoria (variazione in aumento) o una (auto)nota di credito facoltativa (variazione diminutiva).

Semmai, la regolarizzazione andrebbe coordinata con la necessità di “revisionare” la dichiarazione doganale originaria, vista la “polivalenza” di tale adempimento.

Le soluzioni non mancano, come dimostrano le indicazioni date per i casi in cui è parimenti necessario raccordare l’assolvimento dell’imposta con autofattura e quanto dichiarato all’atto dell’operazione doganale (si veda la nota delle Dogane 12243/2019).

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