Professione

IL DIBATTITO - Commercialisti, il mercato regista delle specializzazioni

di Redazione Quotidiano del Fisco

Prosegue il confronto sulle specializzazioni dei commercialisti, lanciato sabato 1° giugno dal presidente del Cndcec, Massimo Miani, in un’intervista al Sole 24 Ore ( clicca qui per rileggerla ). Per inviare commenti si può usare la casella di posta elettronica

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Che sia il mercato a far emergere le specializzazioni

Sono assolutamente favorevole alle specializzazioni, ma deve essere il mercato, le attività esperienziali e il curriculum a evidenziarle, e non certo un titolo e una scuola, che sono assolutamente importanti, ma formative e complementari. Anche negli altri Paesi Europei, nostro riferimento e confronto da sempre, funziona così.

Le specializzazioni devono essere le più svariate possibili, e avere una distinzione la più apprezzabile possibile, come ad esempio: fiscalità e contenzioso; revisore contabile, audit e controllo; curatore e risanatore aziendale; bilancio, accounting, reporting operazioni straordinarie eccetera.

Questa attività e indicazioni possono sicuramente cambiare il passo della nostra professione, perché «rifondare la nostra professione da più forza ed energia all’intera categoria». La specializzazione ci aiuta a crescere, a potenziare le nostre sinergie, ad essere più competitivi anche con le atre professioni economico/legali e soprattutto con le società di consulenza, che hanno già adottato questo percorso.

Massimo Gazzani (Verona)

Occorre tornare a due Albi

L’intervista rilasciata su “Il Sole 24 Ore” del 1° giugno 219 dal Presidente del consiglio nazionale dei dottori commercialisti, dottor Massimo Miani , è stato lo spunto per ritornare sulla “annosa” e “cruciale” questione dell’introduzione e riconoscimento legale delle specializzazioni anche nella nostra Professione.
L’emendamento presentato al Decreto crescita e che avrebbe consentito l’immediata introduzione della proposta formulata dal Cndcec su riconoscimento legale delle specializzazioni professionali per gli iscritti alla sezione A dell’Albo, è stata respinta per la legittima azione lobbistica esercita da alcune sigle sindacali.
L’ennesima occasione sprecata a causa di contrasti e difformi interessi di parte, tutti interni alla nostra categoria.
Quando nel 1913, a Milano, alcuni laureati della Bocconi, insieme con altri colleghi di Torino, diedero vita al primo “albo”, venne correttamente scelto, per differenziare la nuova attività libero professionale da quella meramente contabile dei Ragionieri, il titolo di «dottori in scienze economiche e commerciali esercenti la libera professione» (oggi si sarebbe detto dottori in scienze economiche e finanziarie).
Già allora, quindi, la differenziazione tra le due attività era netta e facilmente percepibile per le categorie sociali ed economiche a cui esse si rivolgevano: attività di rendicontazione contabile per i ragionieri, attività specialistica e spiccatamente economico e commerciale per i dottori.
Questa connotazione di spiccata differenziazione, sia formativa che funzionale, fu confermata implicitamente, sempre nel 1913, dalla Camera di commercio di Milano la quale, nel pubblicare l’elenco per il successivo triennio, dei curatori fallimentari, fissò in due anni di pratica richiesti ai laureati, contro i quattro previsti per i ragionieri.
Questo breve “refresh” storico mi consente di affermare che il problema dell’introduzione delle specializzazioni professionali nella nostra categoria si interseca inevitabilmente con l’opportunità o meno di mantenere, nell’ambito di uno stesso albo, due professioni - quella dei ragionieri commercialisti e quella dei dottori commercialisti – sostanzialmente diverse e, in origine, nate per soddisfare bisogni e target di clientela (per dimensione e natura dell’attività svolta) oggettivamente non coincidenti.
Il problema, naturalmente, non va posto sul piano della rilevanza sociale e dignità professionale – entrambe le professioni presentano pari dignità professionale e adempiono a funzioni di elevata rilevanza sociale tale da meritare entrambe riconoscimento ordinistico e tutela legale - ma piuttosto delle connotazioni funzionali delle attività che le caratterizzano.
I ragionieri nascono come esperti di attività contabile, ovvero rilevazione statistica su base storica e sistematica di “fatti” inerenti alle diverse attività economiche e commerciali.
I dottori in scienze economiche (e finanziarie) come specialisti in materie economiche, finanziarie e diritto d’impresa.
Il titolo universitario, che ne costituisce il presupposto legale per l’iscrizione all’Albo, è solo un “elemento formale” che valorizza quello “realmente sostanziale” della specializzazione professionale.
Ciò premesso, pur nella convinzione forse di andare controcorrente rispetto all’opinione prevalente dei miei colleghi, permettetemi ora di rappresentare la mia convita e netta posizione.
Tornare alle “origini”, ridando chiarezza al mercato in una logica di naturale separazione tra due professioni solo innaturalmente confluite, per esigenze meramente corporativistiche, in un unico albo professionale, rappresenta una sfida e, al tempo stesso, una opportunità per entrambe.
D’altro canto, non si comprende per quale ragione mentre gli psicologi sono separati dagli psichiatri, i geometri dagli ingegneri, gli avvocati dai notai, noi dottori commercialisti dobbiamo essere uniti necessariamente ai ragionieri (pur ovviamente potendo efficacemente ed efficientemente collaborare).
Ma prima che questa mia posizione possa scatenare legittime osservazioni contrarie, permettetemi di dimostrare perché il ritorno a due albi separati apporterebbe benefici ad entrambe le categorie professionali.
Innanzitutto, la chiarezza nei confronti della clientela (la domanda) o, per meglio dire dei diversi target di clientela: clientela retail e microimprese (io preferisco chiamarle artigiane), Pmi e grandi imprese.
È di tutta evidenza che queste differenti categorie di clientela oggi più che mai sono portatori di interessi e bisogni profondamente diversi.
La clientela retail e le microimprese necessitano di attività prevalentemente di rendicontazione contabile ed amministrativa (reporting su base storica) e di consulenza che potremo definire prevalentemente “generalista”.
Ciò non vuol dire naturalmente che coloro che si dedicano a questa tipologia di clientela debbano possedere limitate competenze professionali ed esperienziali (si pensi, ad esempio, alla necessità di fornire consulenza in materia di investimento del risparmio, gestione dei patrimoni familiari e aziendali, in materia fiscale e contabile, costituzione di nuove iniziative imprenditoriali e commerciali).
La clientela costituita dalle piccole e medie imprese, al contrario, necessità oltre che di attività di reportistica storica anche di reportistica corrente e prospettica (attività di pianificazione e controllo) e soprattutto di attività di garanzia nel confronti dei terzi (audit & assurance).
Fondamentali poi sono tutte le attività di rating e finacial advisory anche alla luce della recente nuova normativa in materia di diritto societario e crisi d’impresa (i famosi adeguati «assetti organizzativi, contabili e amministrativi» di cui al novellato articolo 2086 del Codice civile).
Da ultimo, le grandi imprese, e in questa sede si intendono le imprese con un fatturato superiore a 40 milioni di euro, disponendo normalmente di risorse manageriali interne specializzate e di strutture organizzative più complesse, richiedono essenzialmente attività di audit & assurance anche e soprattutto sotto forma di organi di direzione e controllo interno (ad esempio, amministratori indipendenti, comitati endo-consiliari, collegi sindacali, organi di vigilanza 231).
Pensare al giorno d’oggi di poter far bene il proprio mestiere offrendo servizi indistintamente a tutte le tre suddette categorie di clientela oltre ad essere illusorio e profondamente dannoso.
Ma c’è una ragione ancora più importante che spingerebbe verso il ritorno alle origini (per me determinate). Recuperare “attrattività” delle due professioni per i giovani.
La carenza di partecipanti agli esami di stato per dottori commercialisti ed esperti contabili è ormai francamente imbarazzante.
All’ultima sessione di esami di stato presso l’Università Bocconi si sono presentati poco più di dieci candidati e solo uno (dico uno!) aspirante esperto contabile.
E pensare che l’Università Bocconi fu fondata nel 1902 proprio per costituire il “serbatoio naturale” da cui sarebbero dovuti uscire, dopo opportuna formazione, i «dottore in scienze economiche e commerciali».
Ricostituire due differenti albi, oltre ad essere maggiormente coerente con la struttura degli attuali studi universitari (laurea di base triennale e laurea specialistica biennale magistrale) consentirebbe agli studenti di scegliere opportunamente l’eventuale attività libero-professionale in funzione delle personali inclinazioni e preferenze (contabile-amministrativa vs economico-finanziarie) e target di clientela (retail e microimprese vs Pmi e grandi imprese).
Se le nostre due professioni non recupereranno il loro grado di “attrattività” verso le nuove generazioni il loro destino sarà inesorabilmente segnato.
Introdurre le specializzazioni per noi dottori in scienze economiche e finanziarie è quindi determinante per la nostra stessa sopravvivenza e per confermare il riconoscimento di quel ruolo socio-economico che abbiamo meritatamente conquistato nel corso degli ultimi 106 anni.
Al pari la nobile ed antica “arte del ragioniere” può e deve recuperare la dignità che le compete pur riqualificandosi rispetto al un mondo in cui le “informazioni” valgono di più del capitale, delle materie prime e (ahimè) spesso delle stesse risorse umane impegnate nei processi. In altri termini, tornare alle origini è una vitale necessità oltre che quello che ci richiede il mercato.

Massimo Talone (Milano)

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