Il CommentoDiritto

L’emergenza non giustifica limiti alla libertà d’impresa

Il decreto liquidità alla prova delle prerogative aziendali

di Lorenzo Gelmi e Franco Toffoletto

La storia insegna che spesso i provvedimenti di emergenza hanno il brutto vizio di diventare definitivi. Lo ricorda Harari nel suo recente intervento Temporary measures have a nasty habit of outlasting emergencies. Ci siamo già: una gravosa ipoteca sindacale sulla libertà d’impresa e d’iniziativa economica appare nell’ultimo decreto emergenziale. La norma in questione è l’articolo 1, comma 2, lettera l), del decreto Liquidità (23 dell’8 aprile 2020), che subordina la concessione delle garanzie statali ai prestiti per le aziende all’assunzione, da parte dell’impresa beneficiaria, dell’«impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali».

La lettera della disposizione non è perspicua, ma lo scambio che si cerca di perseguire appare chiaro: approvvigionamento di liquidità solo a patto di attribuire alle organizzazioni sindacali un potere di veto sui licenziamenti, peraltro senza limitazioni temporali né di altro tipo. Speriamo in una modifica parlamentare. Ma è la conferma di una pericolosa deriva, già ampiamente riscontrabile nella recente legislazione sull’emergenza sanitaria: la concessione alle organizzazioni sindacali di ruoli e poteri quasi di controllo e certificazione di una situazione evidente.

Passaggi inutili e tali da rendere i processi inutilmente complessi e farraginosi, in una fase eccezionalmente difficile per le aziende.

Ricordiamo gli articoli 19 e 22 del Dl 17 marzo 2020, n. 18, che subordinano la richiesta di cassa integrazione ordinaria e in deroga a inutili e illogici consultazioni, esami congiunti e accordi con le organizzazioni sindacali, tenuto conto che non c’è nulla da esaminare o da negoziare trattandosi di un’emergenza esterna all’azienda conseguente a una decisione governativa di non poter operare, e all’assurdo obbligo di comunicazione alle stesse organizzazioni per l’accesso al fondo di integrazione salariale.

Ebbene, in tale contesto, qualora la norma in commento fosse definitivamente adottata nell’attuale formulazione comporterebbe che, in caso di riduzione dei livelli occupazionali – di qualunque specie, dimensione e natura –, non basterebbe più neppure l’assolvimento di articolati processi di informazione e consultazione sindacale (già ampiamente previsti dalla legislazione vigente), bensì verrebbe imposto, sempre e comunque, il raggiungimento di «accordi sindacali». Con conseguenze devastanti e contenziosi che, a posteriori, potrebbero dichiarare nullo ogni licenziamento. Il che, a nostro avviso, si risolverebbe, in ultima analisi, in un significativo svuotamento delle prerogative e delle libertà «del fare impresa», in spregio dell’articolo 41 della Costituzione, che non consente l’introduzione di un obbligo di necessario e indefettibile nulla-osta sindacale a ogni licenziamento.

Insomma, tra ipoteche sindacali e lucchetti normativi, le imprese rischiano di perdere, in una fase di massimo stress, ogni margine di flessibilità, diventando più rigide e, di fatto, etero-governate, tanto da poter arrivare a decidere di chiudere piuttosto che accettare tale limitazione. In ogni caso, si creerebbe un’inaccettabile differenza tra aziende che non hanno avuto bisogno dell’intervento statale (perché appartenenti a imprese di grandi dimensioni o perché non sottoposte a lockdown) e aziende, magari sanissime e profittevoli, che, invece, ne hanno dovuto usufruire perché impedite ex lege a proseguire la propria attività e/o che per la loro dimensione non potevano avere risorse di cassa tali da sopportare un blocco di questa dimensione. Col corollario di un’ingravescente conflittualità nelle aziende e di un’amplificazione del contenzioso, che andrebbe a deteriorare il già difficile scenario di sperata ripartenza.

In definitiva – senza un’urgente correzione di rotta – le garanzie pubbliche per il ricorso al credito potrebbero diventare, fra infinite negoziazioni, illimitate rivendicazioni e imprevedibili verdetti della magistratura, un ulteriore (e immotivato) serissimo freno per l’auspicata ripresa. O la definitiva fine dell’impresa italiana.