Imposte

Risparmio, punibile per danni lo scostamento dal benchmark

di Alessandro Galimberti

Lo scostamento dal benchmark contrattualmente stabilito per gli investimenti finanziari integra l’inadempimento dell’intermediario e origina pertanto il diritto al risarcimento del danno patito dall’investitore.

La Prima civile della Corte di cassazione - sentenza 24/17, depositata ieri - ribadisce la centralità del criterio della gestione del rischio, stabilito consensualmente tra le parti, attribuendo al benchmark il valore di vera e propria obbligazione di risultato, in un certo senso sovraordinata a tutte le altre pattuizioni relative alla gestione patrimoniale del cliente.

Il caso era stato portato davanti ai giudici di legittimità da Banca Sella Holding, condannata dalla Corte d’appello di Torino a risarcire i danni provocati a due clienti per aver “dribblato” i paletti del mix di investimenti pattuito (il 30% a indice titoli di Stato Jp Morgan Globale in euro e per il 70% a indice mondiale Msci in euro). Secondo i giudici di merito, la banca aveva eseguito una gestione «incoerente» con i rischi contrattualmente assunti, con netta preferenza, almeno per un periodo di sei mesi, della «misura azionaria» in percentuale ampiamente superiore a quella prevista e con caratteristiche di volatilità da classe di rischio 5 «anzichè la congruente classe 4».

Nel proprio ricorso la banca sottolineava che il benchmark andrebbe considerato come «un indicatore statico e solo approssimativo» non presupponendo l’obbligo per il gestore di acquistare titoli «nelle proporzioni indicate», perché in tal modo assorbirebbe ogni discrezionalità dell’intermediario nella ottimizzazione dell’investimento.

Il Ctu incaricato dal tribunale di merito aveva però rilevato un ampio scostamento, almeno per sei mesi, rispetto alle politiche di investimento concordate «provocando agli attori le perdite» lamentate. Per la Cassazione il criterio guida è da ricercare in una «certa discrezionalità dell’intermediario nella valutazione delle operazioni da compiere (ma) tale discrezionalità va coniugata con le linee di gestione scelte e comunque indicate nel contratto», in ciò differenziandosi infatti la gestione individuale rispetto a quella collettiva (nel titolo terzo del testo unico finanziario vigente pro tempore); il regolamento prescrive come obbligatoria l’indicazione della tipologia di operazioni suscettibili di essere effettuate e della misura massima della leva finanziaria utilizzabile. In altre parole, argomenta la Prima, «il benchmark rappresenta il termine di paragone per valutare l’operato del gestore» e, in definitiva, discostarsene comporta una responsabilità per danni all’esito di una gestione non “soddisfacente”.

Cassazione, I sezione civile, sentenza 24 del 3 gennaio 2017

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