Il CommentoDiritto

Modelli 231, il nodo dell’adeguatezza al vaglio dei giudici

di Riccardo Borsari

Il “ventennale” della responsabilità da reato degli enti (il decreto 231/2001) offre molteplici occasioni di riflessione sullo stato dell’arte, sugli aspetti a tutt’oggi controversi e sulle prospettive di riforma.

Il quadro si è nel frattempo arricchito di una elaborazione scientifica particolarmente rilevante e di una esperienza applicativa ancora in parte disomogenea e tuttavia ragguardevole; pure sotto il profilo della maturazione culturale sarebbe ingiusto non riconoscere gli importanti passi in avanti che sono stati compiuti.

Dal punto di vista (anche) normativo sono venuti crescendo, sino ad assumere dimensioni importanti, il ruolo generale della compliance e la significatività del peso dell’autoregolamentazione, come del resto pure la centralità degli adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili ex articolo 2086 del Codice civile palesa. In questa profonda connessione risiede peraltro uno degli irrisolti – ma forse irrisolvibili – aspetti problematici anzitutto (ma non solo) dei modelli di organizzazione e gestione: la perimetrazione del concetto di adeguatezza e la sua valutazione in sede giudiziale. Per un verso, si assume che il deficit organizzativo, latamente inteso, possa contribuire in maniera non insignificante alla realizzazione dell’illecito della persona fisica (e dell’ente) così come che un ambiente di rispetto delle regole di corretta amministrazione costituisca requisito indefettibile a diversi scopi. D’altra parte, una valutazione in termini oggettivi dell’adeguatezza dell’organizzazione di cui l’impresa si è dotata fa da contraltare ai costi che l’ente, alla stregua di un criterio di razionalità economica, è chiamato a sostenere al fine di predisporre un assetto organizzativo idoneo. I modelli di organizzazione e gestione, gli assetti adeguati, l’incremento della compliance, il complesso strutturale del Codice della crisi d’impresa, finiscono allora per dare vita a un sistema che porta il soggetto collettivo a farsi carico di costi di organizzazione (prevenzione) così da non trasferirli sulla collettività.

L’idea in sé appare meritevole di attenzione e valorizzazione, a patto che sia in un certo senso bilanciata da profonda accuratezza e prudenza in sede di (eventuale) valutazione giudiziale, ex post, di determinati elementi strutturali tipici dei corpi di norme volta a volta rilevanti. Lo spazio valutativo probabilmente non può che permanere piuttosto esteso, dal momento che i rimedi talora immaginati, oltre a non risultare decisivi, paiono inclini a snaturare l’in sè della disciplina. Per questo risulta decisivo un “lavoro congiunto” di dottrina e giurisprudenza volto a enucleare principi, regole e criteri che possano fungere da guida e punti di riferimento per tutti gli attori coinvolti.