Controlli e liti

La plusvalenza non può essere determinata in via automatica sulla base del registro

La Corte di cassazione, nell’ordinanzia 29868/2020, accoglie il ricorso del contribuente: base imponibile non assimilabile al valore venale

No all’accertamento automatico della plusvalenza sulla base del registro. È questo il senso dell’ordinanza 29868/2020 con la quale la Cassazione ha ribadito la separazione intercorrente tra accertamento del maggior valore ai fini delle imposte di registro e ipocatastali e plusvalenza ai fini delle imposte dirette, poiché si basano su differenti criteri di determinazione. Potendo, quello determinato ai fini del registro, fungere tutt’al più da indicatore. Questo in virtù della norma di interpretazione autentica contenuta nell’articolo 5, comma 3, del Dlgs 147/2015.

Una società riceveva un avviso di accertamento per la maggiore plusvalenza non dichiarata il cui importo derivava da una cessione d’azienda oggetto di rettifica ai fini dell’imposta di registro con atto divenuto definitivo per mancata impugnazione.

La società e i soci, a cui il maggior reddito era stato imputato per trasparenza, adivano al contenzioso le cui motivazioni venivano accolte in entrambi i gradi di merito. Le Entrate proponevano così ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, la violazione dell’articolo 51 del Dpr 131/86 (Testo unico del registro) per avere il giudice tributario svilito a mero indizio il valore determinato ai fini dell’imposta di registro che l’Ufficio, per contro, aveva considerato automaticamente quale maggiore plusvalenza da riprendere a tassazione ai fini Irpef.

La Suprema corte, nel respingere il ricorso erariale, ha ricordato che il costante orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’Amministrazione finanziaria, nella fase di accertamento della plusvalenza patrimoniale, era legittimata a procedere in via presuntiva sulla base dell’accertamento di valore in sede di applicazione dell’imposta di registro, con onere della prova contraria a carico del contribuente, è mutato a seguito dell’introduzione nell’ordinamento della norma di interpretazione autentica contenuta nel Dlgs 147/2015. Il comma 3 dell’articolo 5, sancisce, infatti, che, per le cessioni di immobili e aziende, nonché per la costituzione di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale. Questo perché la base imponibile ai fini delle imposte dirette, nel caso di specie l’Irpef, non è data dal valore del bene, bensì dalla differenza tra il corrispettivo percepito ed il prezzo di acquisto, aumentato di ogni altro costo inerente.

La Suprema corte ha poi precisato che il riferimento al valore determinato ai fini delle imposte d’atto, contenuto nella norma del 2015, svolge una funzione meramente esemplificativa volta a rimarcare la non assimilabilità della base imponibile ai fini del registro (valore venale) rispetto a quella prevista per le imposte dirette (corrispettivo).

Spesso i contribuenti, o i loro consulenti, temendo che l’accertamento di maggior valore ai fini del registro si tramuti automaticamente in accertamento sulla plusvalenza, sono portati a coltivare il contenzioso anche quando questo sia poco difendibile o di importo modesto.

Resta comunque il fatto che, seppur determinato su basi differenti, il valore ai fini dell’imposta di registro rappresenta comunque un indicatore di possibile anomalia e pertanto, in questi casi, può risultare d’aiuto raccogliere un set documentale adeguato al fine di vincere eventuali contestazioni da parte del fisco. Una soluzione da valutare per evitare noie con il fisco, qualora il corrispettivo pattuito fosse inferiore all’effettivo valore venale, potrebbe essere quella di esplicitare in atto i due diversi importi. L’articolo 51 del Dpr 131/86 nessun problema pone al riguardo.

Al netto di quanto precede, l’aspetto positivo della pronuncia è che, almeno con riferimento a questa fattispecie, la Cassazione non ha voluto introdurre alcuna nuova «presunzione giurisprudenziale» di inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, come fatto, ad esempio, con riferimento alle indagini bancarie.

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