Il CommentoImposte

Imposte non armonizzate, le mosse disponibili contro le disparità Ue

di Enrico De Mita

Contro le discriminazioni “a rovescio” in materia di imposte non armonizzate i contribuenti italiani possono invocare la violazione del principio di uguaglianza (articolo 3 Costituzione). La recente pronuncia della Corte di giustizia C-565/18, inerente l'imposta sui derivati basati su azioni di società italiane, offre l'occasione di far luce sul tema delle discriminazioni a rovescio (“reverse discrimination”), situazioni giuridiche nelle quali operatori nazionali subiscono un trattamento più sfavorevole, a parità di condizioni, rispetto ad operatori o cittadini di altri Stati Ue.

La domanda pregiudiziale, concernente l'interpretazione degli articoli 18, 56 e 63 Tfeu, era stata presentata nell'ambito di una controversia con la Dre Lombardia, in merito ad una domanda di rimborso di un'imposta su transazioni finanziarie relative a strumenti finanziari derivati assolta da Société Générale.

La contribuente sosteneva che l'imposta prevista dall'articolo 1, comma 492, della legge 228 / 2012 crea discriminazioni tra residenti e non residenti nonché restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali.

La Corte ha evidenziato che, contrariamente a quanto sostenuto dalla contribuente, si trovano in situazione analoga i soggetti residenti e non residenti che partecipano alle operazioni relative agli strumenti finanziari derivati basati su un titolo emesso in Italia, assoggettati all'imposta da questa normativa nazionale.

Laddove Société Générale adduce che dalla differenza di trattamento che la normativa italiana opera tra i derivati basati su titoli disciplinati dal diritto italiano e quelli basati su titoli non disciplinati da tale diritto risulta che l'investimento nei primi è reso meno vantaggioso, la Corte ha ripetutamente dichiarato, da un lato, che in assenza di un'armonizzazione a livello dell'Unione europea, le conseguenze svantaggiose che possono derivare dalle competenze fiscali dei vari Stati membri - purché il loro esercizio non sia discriminatorio - non costituiscono restrizioni alle libertà di circolazione; dall'altro, che gli Stati membri non hanno l'obbligo di adattare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri.

Escluso che l'imposta in esame sia discriminazione vietata o restrizione alla libera circolazione dei capitali, la sentenza consente di ampliare l'indagine alle discriminazioni a rovescio in materia di tributi non armonizzati.

Appare del tutto ragionevole che il soggetto passivo di tali tributi possa invocare l'applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, sia pur attraverso il principio di cui all'articolo 3 della Costituzione.

Si tratta di un problema centrale per i giudizi tributari italiani, non soccorsi, in via diretta, dalla Giurisprudenza della Corte di giustizia, assai nutrita, d'altra parte, in materia di operatore assoggettato a imposte armonizzate (Iva e accise, per esempio).

È necessario l'intervento della Corte costituzionale con riguardo alle discriminazioni a rovescio a danno di soggetti italiani rispetto a soggetti di altri Stati Ue, nei casi di tributi non armonizzati. È costituzionalmente illegittima, per violazione del citato articolo 3, ogni previsione di disparità di trattamento, per esempio sul piano sanzionatorio, dei contribuenti di imposte non armonizzate rispetto ai soggetti passivi di imposte armonizzate.

La Consulta è intervenuta con la nota sentenza 443 / 1997. Tale pronuncia statuiva che alle imprese aventi stabilimento in Italia doveva ritenersi consentita, nella produzione e nella commercializzazione di paste alimentari, l'utilizzazione di ingredienti legittimamente impiegati, in base al diritto comunitario, nel territorio della Comunità europea.

La normativa interna – ha chiarito la Corte costituzionale – non può tradursi in uno svantaggio competitivo e, in ultima analisi, in una vera e propria discriminazione in danno delle imprese nazionali.

Non si tratta di derogare alla separazione dei due ordinamenti, quello interno e quello comunitario, separazione che astrattamente consentirebbe la tolleranza delle discriminazioni a rovescio, quale scelta rimessa alla libera autodeterminazione di Stati sovrani. Tale presunta “libera” autodeterminazione, in realtà, è uno spazio destinato ad essere riempito dai principi costituzionali, in primis dall'articolo 3 e dall'articolo 41 della Costituzione.

La disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto comunitario, non lo è per il diritto costituzionale italiano.

La statuizione di rilievo è proprio radicata nel principio di uguaglianza: il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato italiano in rapporto di concorrenza opera come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi stabiliti dal Trattato Ue.

In definitiva, le imprese nazionali non possono essere gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria.