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Iva, una riscrittura sistematica per un vero Codice tributario

Il compleanno dell’imposta sul valore aggiunto è l’occasione per fare l'inventario dei principali difetti di questa norma e per presentarne gli auspicabili miglioramenti

di Raffaele Rizzardi

Il 26 ottobre di quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla promulgazione della legge Iva, il Dpr 633 del 26 ottobre 1972.

Potremmo dire di festeggiare le nozze d’oro con i contribuenti e i loro consulenti, ma la realtà è da «separazione con addebito», che ovviamente non si può fare.

Cogliamo questa occasione per fare l’inventario delle principali anomalie di questa norma, non tanto per lamentarci e basta, ma per dare una traccia per gli auspicabili miglioramenti.

La prima anomalia dell’Iva consiste nella stratificazione di un testo risalente, quando le direttive europee sono state cambiate due volte. La «legge Iva» – così la chiameremo in seguito – nasce per il tardivo recepimento della seconda direttiva, la numero 228 del 1967, che peraltro formava un corpus unitario con la prima, la numero 227.

Il 1° aprile del 1979 recepiamo in parte la sesta direttiva (77/388/Cee), molto più articolata e precisa della seconda. Ma la parte più innovativa, per esempio sull’elemento fondamentale dell’imposta, la detrazione e le sue rettifiche, entra in vigore solo il 1° gennaio 1998, cioè venti anni dopo.

Dobbiamo ricordare, quasi con nostalgia, le circolari dell’allora Ministero delle finanze, che in questo caso hanno prodotto la numero 328 del 24 dicembre 1997, una vera e propria enciclopedia per questo cambiamento e per gli altri portati dalla norma, che riesce a far capire le logiche sottostanti alle innovazioni, logiche che ci aiutano a risolvere i casi nuovi e ovviamente non considerati dalla circolare.

E tra i recepimenti ben più tardivi dobbiamo aspettare il 3 marzo 2016 (cioè quasi quarant’anni) per correggere la rubrica del nostro articolo 17 da «soggetti d’imposta» (che sono quelli definiti negli articoli 4 e 5) in «debitori d’imposta», rubrica incontestabile dell’articolo 21 della sesta direttiva.

Arriva poi la direttiva 2006/112/Ce, tuttora vigente anche se con più di venti innovazioni, la più importante delle quali ha riguardato, dal 1° gennaio 2010, le regole di territorialità.

A questo proposito facciamo una digressione sulla normazione europea, con un confronto sulla nostra.

Nell’ordinamento del diritto pubblico italiano, l’atto amministrativo deve essere adeguatamente motivato, mentre l’atto normativo non postula questa condizione.

Il problema si accentua con il continuo ricorso al voto di fiducia per l’approvazione delle leggi, specie quelle di conversione dei provvedimenti formulati dal governo. In questi casi l’esame delle commissioni è affrettato, in quanto la Corte costituzionale aveva condannato il sistema della reiterazione delle leggi di conversione, a fronte di provvedimenti riscritti ogni volta con qualche modifica non di sostanza.

Basta tornare al 1993, quando il vigente provvedimento per l’Iva sugli scambi intracomunitari, il numero 331 è datato 31 agosto ed è stato convertito in legge alla fine di ottobre, pur disciplinando presupposti in vigore dal 1° gennaio di quell’anno, facendo salvi i quattro decreti-legge che lo avevano preceduto.

Le direttive europee hanno, innanzitutto, un iter meno convulso, con l’intervento non solo del Consiglio e del Parlamento europei, ma anche di organi consultivi, come il Comitato economico e sociale.

Quando la direttiva viene pubblicata, è di regola preceduta dai «considerando», cioè dagli elementi che aiutano a comprendere il senso della norma. La direttiva vigente ne esce preceduta da ben 67.

Il problema nasce con le modifiche della direttiva, incompatibili con le nuove norme. Per esempio il «considerando» numero 21 pone in evidenza che «per quanto riguarda la locazione di mezzi di trasporto è opportuno, per ragioni di controllo, applicare rigorosamente la regola generale, localizzando dette prestazioni di servizi nel luogo in cui il prestatore è stabilito».

La riforma del 2010 ribalta questa motivazione, che si prestava a condotte elusive ritenute regolari dalla Corte di giustizia, distinguendo tra noleggio a breve e noleggio a lungo termine.

Ma la versione “consolidata”, per esempio del 2017, continua a riprodurre le motivazioni del testo originario – che dovrebbero essere corrette e integrate con le dieci motivazioni della direttiva 2008/8/Ce (che peraltro non richiama quella sul noleggio).

Soluzione empirica: la versione attuale della direttiva integrata con quelle successive ha perso le motivazioni che, in considerazione delle rilevanti modifiche, avrebbero rischiato di essere fuorvianti.

A questo punto vorremmo evitare di produrre un volume sul tema che stiamo esaminando, se dovessimo entrare nei dettagli, e pertanto ci limitiamo a fare un inventario delle anomalie e degli interventi correttivi:

• riscrivere l’articolo 1 in conformità all’equivalente articolo della direttiva vigente. La nostra norma qualifica l’Iva come un’imposta sulle operazioni attive e relega alla fine del titolo I della legge il diritto di detrazione. La norma europea specifica sin dall’inizio che «a ciascuna operazione, l’Iva, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo»;

• applicare il principio fondamentale di qualsiasi normativa, secondo cui a termini identici devono corrispondere nozioni identiche. Un esempio: i soggetti d’imposta vengono talora definiti con questo termine, talaltra con quello più remoto, ma rimasto, di «contribuente». Il caso contrario, di un termine identico con due significati diversi, è quello di «effettuazione»: nell’articolo 6, riferendoci alla direttiva, significa «fatto generatore del tributo», e negli articoli 7 vuol dire «luogo dell’operazione», individuando cioè il Paese cui spetta il tributo;

• riunire le disposizioni collocate in norme esterne, in particolare quelle relative agli scambi che ora chiamiamo intraunionali (il Dl 331/1993) e al regime del margine dei beni usati, oggetti d’arte, antiquariato, collezione (il Dl 41/1995);

• riscrivere i commi con le regole del capo III della legge 400/1998, attribuendo loro la corretta numerazione. Basti pensare all’articolo 60 della legge Iva, il cui terzo comma sopravvissuto alle modifiche viene convenzionalmente chiamato "settimo" , come si vede dall’importante circolare 35/E del 2013, che ha logicamente esteso queste regole a tutti i casi di Iva corrisposta in periodi successivi a quelli di effettuazione;

• adeguare l’articolo 6, terzo comma, alle regole della direttiva, che consentono il rinvio dell’esigibilità ma non dell’effettuazione. Da qui il problema delle prestazioni eseguite prima della chiusura della partita Iva, non ancora fatturate e riscosse dopo;

• riscrivere la norma “molto più peggiore assai” (come diceva provocatoriamente il mio professore di lettere) di tutta la legge Iva: l’articolo 26. È collocato fuori posto nella parte relativa agli adempimenti mentre è norma sostanziale, che mescola la rettifica dell’imponibile e dell’imposta (che appartiene all’articolo 13 o a un nuovo 13-bis) con la rettifica della detrazione, cui è dedicato il 19-bis2;

• eliminare il termine «detrazione» sia nell’articolo 26, sia nell’articolo 30 (il saldo a credito può essere chiesto a rimborso o computato in detrazione nell’anno successivo). La detrazione è unicamente un istituto che riguarda l’Iva pagata in dogana o addebitata dai fornitori. Questa definizione sta comportando decadenze dal diritto, sicuramente incompatibili con la direttiva;

• ultimo, ma non meno importante, l’adozione di una legge Iva, riscritta in modo sistematico, all’interno di un vero «Codice tributario». Anche se siamo abituati ad accettare questa definizione per le raccolte di norme eterogenee, il «Codice» è ben altro.

Questo articolo fa parte del Modulo24 Iva del Gruppo 24 Ore.

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