Controlli e liti

Convenzione multilaterale con presunzione sull’abuso

Richiesto solo un giudizio di «ragionevolezza» anziché la ricerca della prova

La convenzione multilaterale (Mli), entrata in vigore il 1° luglio 2018 ma ad oggi non ancora ratificata dall’Italia, si prefigge l’obiettivo di colmare le lacune nelle norme fiscali internazionali esistenti modificando i trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, trasponendovi i risultati del progetto Beps dell’Ocse/G20 per prevenire l’erosione della base e lo spostamento degli utili.

Il Mli contempla due disposizioni «minimum standard» volte a contrastare i fenomeni di abuso/elusione finalizzati a ottenere indebiti vantaggi fiscali contrari allo scopo dei trattati e che si applicano di default laddove non previste dalle convenzioni esistenti. Ci riferiamo all’articolo 6 (scopo del trattato) e all’articolo 7 (prevenzione dell’abuso dei trattati).

In particolare, l’articolo 7 introduce il Principal purpose test (Ppt) quale norma generale antiabuso, che consiste nel disconoscimento di un beneficio convenzionale in relazione ad un elemento di reddito o di patrimonio «se è ragionevole concludere, tenuto conto di tutti i fatti e le circostanze pertinenti, che l’ottenimento di tale beneficio era uno degli scopi principali di qualsiasi intesa o transazione che ha portato direttamente o indirettamente a tale beneficio».

Trattandosi di una clausola «minimum standard», salvo non sia già prevista dalla convenzione o gli Stati optino per una Limitation on benefits dettagliata, la disposizione implementa i trattati bilaterali in vigore ed è pienamente applicabile. Emerge però una criticità, già rilevata da alcuni commentatori, sul disallineamento tra questa clausola e le norme unionali (e domestica) in tema di accertamento dell’abuso.

Infatti, in forza dell’articolo 7 del Mli, sia pur tenendo conto di tutti i fatti e le circostanze pertinenti, le amministrazioni finanziarie non pare siano tenute a ricercare una prova effettiva, quanto effettuare un giudizio di «ragionevolezza» (reasonable test), riducendo in maniera incisiva il proprio onere probatorio. È di tutta evidenza che siamo in presenza di una potenziale presunzione semplice lasciata al libero apprezzamento delle singole amministrazioni e che ha, come conseguenza, l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

Questa disposizione contrasta con le norme unionali come interpretate dalla Corte di giustizia Ue (da ultimo le sentenze Danesi, 26 febbraio 2019 C-115/16, C 116/16, C 117/16, C-118/16, C -119/16, C-299/16) e, in particolare, con il principio generale per cui i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione. La Corte ha, infatti, ribadito che nel caso in cui l’amministrazione finanziaria di uno Stato membro intendesse, per un motivo attinente all’esistenza di una pratica abusiva, in applicazione di detto principio generale negare il beneficio di una norma unionale, spetterà alla medesima dimostrare la sussistenza di elementi costitutivi di una pratica di tal genere, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti.

Contrasta altresì con l’articolo 10-bis della legge 212/2000 che prevede delle specifiche garanzie, tra le quali l’onere per l’amministrazione finanziaria di dimostrare la sussistenza (concreta) della condotta abusiva.

Si pone pertanto un disallineamento (una sorta di corto circuito) tra norma interna e disposizioni unionali aventi efficacia diretta con il Mli in tema di accertamento e di ripartizione dell’onere della prova in tema di abuso, che non è facile risolvere trattandosi di un conflitto tra norme dispositive di trattati internazionali. Quale trattato prevale?

In linea generale, laddove la circostanza interessi due Stati membri dell’Unione, come ha statuito la Corte di giustizia Ue (C-3/91 del 10 novembre 1992 - Exportur SA), prevale il principio unionale, rilevando nel caso come «le disposizioni di una convenzione, stipulata successivamente al 1° gennaio 1958 da uno Stato membro con un altro Stato membro, non potessero applicarsi, a partire dall’ adesione di questo secondo Stato alla Comunità, nei rapporti fra gli stessi Stati qualora si rivelassero in contrasto con le norme del Trattato» (idem nella sentenza Matteucci C-235/87 del 27 settembre 1988). Tale principio si ricava anche dall’articolo 351 del Tfue, che fa salvi, a determinate condizioni, i diritti e gli obblighi derivanti da trattati conclusi anteriormente alla conclusione dei Trattati Ue.

Le norme unionali prevalgono anche laddove la circostanza interessi uno stato dell’Unione e un Paese terzo con il quale sia stata conclusa una convenzione bilaterale. Nella sentenza sul caso Gottardo (C-55/00 del 15 gennaio 2002), la Corte Ue ha precisato che «nel mettere in pratica gli impegni assunti in virtù di convenzioni internazionali, indipendentemente dal fatto che si tratti di una convenzione tra Stati membri ovvero tra uno Stato membro e uno o più paesi terzi, gli Stati membri (...) devono rispettare gli obblighi loro incombenti in virtù del diritto comunitario. Il fatto che i paesi terzi, dal canto loro, non siano tenuti al rispetto di alcun obbligo derivante dal diritto comunitario è irrilevante a questo proposito».

Ne discende che anche l’articolo 10-bis della legge 212/2000 non potrà essere “derogato” da un trattato bilaterale che preveda una minore garanzia per il contribuente, essendo l’Italia uno degli Stati dell’Unione. È un argomento che farà discutere, ma salvo che la Ue non intenda invertire la rotta sull’onere della prova in tema di abuso modificando la sua legislazione, con diretta conseguenza anche in ambito nazionale, questo contrasto non potrà che essere foriero di nuovo contenzioso.

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