Controlli e liti

FISCO E SENTENZE/Le massime di merito: condono tombale, Tarsu, pertinenze

di Ferruccio Bogetti e Filippo Cannizzaro

Anche i gioielli nascosti vanno dichiarati al confine tra Italia e Svizzera. Non la costituzione in giudizio ma provvedimento espresso e senza beneficio della proroga biennale per negare il “condono tombale”. La deducibilità del Trattamento di fine mandato è slegata da quella del Trattamento di fine rapporto. Anche senza “graffatura” sono pertinenze i terreni collegati all'abitazione principale. Nessuna imposta di registro per la sentenza civile di “ricognizione”. Riscossione della Tarsu con prescrizione quinquennale. Va rimborsata l'imposta sostitutiva se il nuovo valore peritato è inferiore a quello vecchio. Sono questi gli argomenti trattati dalla rassegna di questa settimana delle principali pronunce delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado.

I gioielli nascosti vanno dichiarati in dogana

La contribuente, residente in Italia, ha l’obbligo di dichiarare in sede doganale i gioielli provenienti dallo Stato Extra Ue anche se non ne conosce il valore. A prescindere dalla circostanza che sia l’effettivo proprietario e che trattasi di merce introdotta per scopi commerciali o meno. Questo perché, in base alla normativa doganale, vige il «principio dichiarativo», che obbliga il soggetto importatore a dichiarare la merce del valore superiore a trecento euro. Di conseguenza, è legittimo l’accertamento tramite il quale vengono ricuperati i maggiori dazi doganali e la relativa Iva all’importazione nonché l’atto di irrogazione delle sanzioni, qualora la contribuente non dichiara l’importazione dei gioielli invece rinvenuti negli indumenti dello stesso a seguito di controllo dei funzionari. In dettaglio, è valido l’accertamento emanato dall’Agenzia Doganale qualora:

a) Il contribuente non dichiari la merce importata e violi così le norme di diritto doganale (CDU) nonché l’articolo 2 del Decreto Ministeriale n. 32 del 2009 (che recepisce direttiva UE) di tramite cui è disposto l’obbligo di dichiarare merce proveniente da paese Extra Ue del valore di oltre trecento euro;

b) L’atto consente di individuare agevolmente i beni e i dazi dovuti anche se non contiene l’indicazione dei cosiddetti “codici” TARIC (Tariffa Integrata Comunità Europea), in cui sono classificati i beni cui corrispondono i relativi dazi, beni che comunque erano già stati analiticamente descritti nel Pvc e nella perizia estimativa;

c) Il comportamento dei funzionari in sede di controllo si rileva conforme alle direttive comunitaria e nazionale, avendo redatto il Pvc in contraddittorio col contribuente, il quale lo ha regolarmente sottoscritto senza produrre in replica né memorie né documentazione;

d) Il comportamento del contribuente è in contrasto con l’articolo 303 del Tuld, dato che alla domanda rivoltagli dai funzionari se avesse merce da dichiarare ha risposto negativamente.

Nel caso in esame, una donna, nel gennaio 2017, transita in treno dalla Svizzera all’Italia. In sede di transito doganale dichiara di non introdurre merce, ma, a seguito dei controlli, vengono rinvenuto gioielli per valore di oltre 485mila euro nascosti negli indumenti. La donna dichiara di non essere proprietaria, ma l’Agenzia delle Dogane, sulla scorta del pvc elevato, recupera maggiori diritti doganali per 12mila euro e Iva importazione per oltre 109mila euro, nonché sanzione per 30mila euro.

Ctp Como, sentenza n. 31/4/18


Il rigetto del condono tombale vuole un diniego esplicito

Il rigetto del condono tombale presuppone un diniego esplicito, che non può essere manifestato dall’Amministrazione nell’atto di controdeduzioni nel giudizio tributario, perché la disciplina del condono è improntata sul silenzio assenso, e a maggior ragione se l’Amministrazione trattiene le somme da condono versate dal contribuente senza giustificato motivo. In ogni caso, l’Amministrazione non può beneficiare della proroga per emettere l’accertamento, perché, ritiene non perfezionata la procedura, non può nemmeno beneficiare del maggior termine previsto dall’articolo 10 della Legge 289 del 2002 per emettere accertamento. Va pertanto accolta la tesi del contribuente, che ritiene valida la procedura di condono avendo versato le relative somme dovute e che non è stata espressamente revocata dall’Amministrazione. Infatti tale procedura è improntata sul “silenzio assenso”, e viene meno ogni accertamento tributario così come previsto dal decimo comma dell’articolo 9 della Legge 289 del 2002. A maggior ragione se le somme versate per la agevolazione sono state trattenute senza giustificato motivo dall’erario, perché tale comportamento, oltre ad essere contrario ai principi di leale collaborazione e buona fede, comporta per l’Amministrazione un indebito arricchimento. Va quindi rigettata la tesi dell’Amministrazione secondo cui il diniego può essere esternato nell’atto di controdeduzioni nel corso del giudizio, dato che, nella disciplina di condono, nessuna norma impone di comunicare il diniego in maniera esplicita.
Nel caso in esame, a seguito di Pvc elevato dai militari della Guardia di Finanza nei confronti di un società immobiliare, l’amministrazione accerta:
a) Per l’anno 1999:

1) Omessa fatturazione per cessione di beni del valore di 80 milioni di lire e Iva per 8 milioni di lire;

2) Tardiva fatturazione per servizi per oltre 109 milioni di lire e iva per oltre 10 milioni e indebita detrazione di costi;

b) Per l’anno 2000:

1) Omessa fatturazione per cessione di beni del valore di 120 milioni di lire e Iva per 16 milioni;

2) Indebita detrazione di costi per oltre 3milioni di lire e Iva per oltre 623mila lire, recupera tramite accertamenti notificati nel settembre 2005.

La società si oppone con ricorso parzialmente accolto con sentenza depositata nel settembre 2007, appellata sia dall’amministrazione che dalla società e si avvale del c.d. condono tombale e versa le relative somme, ritenendo oramai nulli gli accertamenti. L’Amministrazione resiste e sostiene che la società non può essere ammessa alla procedura nell’atto di controdeduzioni.

Ctr Sardegna, sentenza n. 148/4/18


La deducibilità del Trattamento di fine mandato è slegata da quella del Tfr

Il Trattamento di fine mandato (Tfm), accantonato dalla società in favore degli amministratori, è deducibile alla sola condizione che tale indennità sia stata già prevista in data anteriore all’inizio del rapporto, mentre non risente della disciplina prevista per la deducibilità relativa al trattamento di fine rapporto (Tfr). Risulta infatti infondata la tesi dell’Amministrazione, secondo cui il Tfm, disciplinato dal quarto comma dell’articolo 105 del Tuir, è deducibile nella stessa misura prevista per il Tfr, disciplinato dal medesimo articolo al primo comma nonché dall’articolo 2120 del Codice Civile ossia nella misura annuale che non deve superare l’importo della retribuzione annua dovuta divisa per 13,5. Va invece accolta la tesi del contribuente, secondo cui la misura della deducibilità del Tfm è “svincolata” dal quella disposta dal Tfr, atteso che: a) Il TFM è indennità corrisposta a titolo di indennità avente carattere previdenziale, stante il rinvio alla disciplina delle indennità percepite per cessazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (articolo 17, primo comma, lettera c-bis del Tuir); 2) Lo stesso è deducibile per quota statuita per anno in base al principio di competenza a condizione che tale indennità sia già stata prevista prima dell’inizio del rapporto di lavoro, in sede di costituzione ovvero con delibera dei soci come previsto dagli articoli 2364 e 2369 del Codice Civile; 3) Le norme che disciplinano la deducibilità del Tfr sono chiaramente riferite ai rapporti di lavoro dipendente, mentre il rapporto dell’amministratore con la società è inquadrabile come mandato.
Nel caso in esame, una Sas deduce gli importi relativi al trattamento di fine mandato relativi all’anno 2010 per oltre 66mila euro. Tale somma veniva ricuperata dall’Amministrazione con accertamento notificato nel 2015 risultando lo stesso eccedente l’importo previsto per la deducibilità del trattamento di fine rapporto, siccome applicabile anche al trattamento di fine mandato.

Ctr Lombardia, sentenza 884/21/18


Sono pertinenze i terreni “non graffati” annessi all’abitazione principale

Il terreno annesso all’abitazione principale, che sostanzialmente rispetta i requisiti civilistici di pertinenza, deve essere considerato come tale e godere delle relative agevolazioni, anche se non “graffato” catastalmente all’edificio. Intanto il terreno è qualificabile come pertinenza se rispetta i dettami dell’articolo 817 del Codice civile, ossia il profilo oggettivo rappresentato dal collegamento funzionale al fabbricato, nonché quello soggettivo rappresentato dalla volontà di porre il bene a servizio dell’abitazione principale. Poi non rileva la circostanza che il terreno non sia graffato all’abitazione principale e quindi al Catasto risulti con “autonomo” mappale, poiché tale requisito non rappresenta l’unico elemento tramite cui attribuirgli qualifica pertinenziale. Pertanto va annullato l’avviso di liquidazione emanato dall’Amministrazione tramite il quale viene disconosciuta l’agevolazione “prima casa” estesa ai terreni non graffati all’edificio e recuperate le maggiori imposte di registro e ipo-catastali.
Nel caso in esame, un uomo, a seguito della morte del padre avvenuta nel maggio 2015, presenta una dichiarazione di successione comprensiva di terreni annessi all’abitazione principale, ma questi non risultavano essere “graffati”. Paga le imposte relative all’abitazione principale ed ai terreni in misura agevolata. Ma l’Amministrazione ritiene non spettanti le agevolazioni per i terreni per non essere “graffati” all’edificio principale, e, nel dicembre 2016, con avviso di liquidazione recupera le maggiori imposte di registro e ipo-catastali.

Ctp Sondrio, sentenza n. 4/1/18


Nessuna imposta di registro per la sentenza civile di “ricognizione”

La sentenza civile, che accerta lo status di proprietario del contribuente per usucapione, non comporta alcun trasferimento di immobile. Pertanto, è illegittima la richiesta della maggiore imposta di registro, ipotecarie e bollo pretesa dall’erario su tale decisum. È infondata la tesi dell’Amministrazione, secondo cui la sentenza civile, che accerta la compravendita del bene immobile per usucapione, è equivalente ad un atto di trasferimento del bene, con conseguente maggiore imposta di registro dovuta in misura proporzionale ai sensi della Nota II-bis, dell’articolo 8, della Tariffa Parte Prima, allegata al Dpr 131 del 1986. È invece fondata la tesi del contribuente, secondo cui la sentenza civile si è limitata a convalidare il precedente atto di compravendita dell’immobile posseduto del venditore per il “tempo” sufficiente al compimento dell’usucapione, e che non vi è stato sostanzialmente alcun trasferimento di immobile.
Nel caso in esame, nel giugno 2002 una donna trasferisce al marito, poi deceduto, un immobile posseduto dai suoi genitori sin dal 1955 ed a questa pervenuto per successione. All’atto di compravendita, si oppongono terzi soggetti, che rivendicano diritti su tale immobile e promuovono azione civile respinta con sentenza del 2010 tramite cui il Tribunale convalida l’atto di trasferimento del 2002, atteso che parte venditrice aveva diritto di usucapione sul bene anche se non aveva intrapreso alcun giudizio civile per far valere tale diritto. L’Amministrazione ritiene che la sentenza abbia effetto traslativo di proprietà ed emette avviso di liquidazione tramite cui ricupera maggiori imposte di registro e ipo-catastali per oltre 4mila e cinquecento euro.

Ctr Lazio, sentenza n. 460/9/18


Riscossione della Tarsu con prescrizione quinquennale

Il diritto alla riscossione della Tarsu si prescrive in cinque anni perché si tratta di un corrispettivo che va pagato periodicamente ossia con scadenza annuale, al quale si applica il termine prescrizionale breve quinquennale, essendo assimilabile ad una prestazione periodica continuativa, come previsto dall’articolo 2948, numero 4, del Codice Civile. Pertanto è illegittima l’ingiunzione di pagamento notificata al contribuente dopo il termine di cinque anni decorrenti dalla notifica dell’avviso Tarsu per intervenuta prescrizione. Ne ha valenza di atto interruttivo il fermo amministrativo notificato al contribuente se questi è deceduto il giorno prima, atteso che tale atto andava notificato solamente agli eredi.
Nel caso in esame, il Concessionario, incaricato dal Comune ad accertare e riscuotere le entrate tributarie, notifica ad un contribuente, nel giugno 2011, degli avvisi relativi a Tarsu per gli anni dal 2004 al 2009 per oltre 2,9mila euro. A seguito del mancato pagamento dell’uomo, deceduto il 27 dicembre 2011, il Concessionario della riscossione notifica un fermo amministrativo al de cuius il 28 dicembre 2011. In seguito notifica all’erede di questi ingiunzione di pagamento fondata sugli avvisi Tarsu nel settembre 2016 e ricevuto nell’ottobre 2016, ingiunzione cui si oppone l’uomo per intervenuta prescrizione quinquennale.

Ctp Treviso, sentenza n. 94/1/18


Va rimborsata l’imposta sostitutiva se il valore peritato si riduce

Il contribuente, che tramite perizia asseverata ha una seconda volta quantificato il valore dell’immobile e ha pagato la relativa imposta sostitutiva, in caso di successiva rideterminazione del bene a un valore più basso, ha diritto al rimborso della differenza tra l’imposta sostitutiva originariamente pagata e l’imposta sostitutiva poi minore a seguito di tale rideterminazione. In base alla normativa di riferimento (lettera ee) del secondo comma dell’articolo 7 del Decreto Legge n. 70 del 2011), infatti, il contribuente ha diritto a detrarre la imposta sostitutiva già versata se a seguito di una successiva rideterminazione, il valore del bene risulta essere superiore a quello originario, ovvero, in caso di cessione del bene e di realizzazione di plusvalenza, di detrarre l’imposta sostitutiva sulla maggiore imposta relativa alla plusvalenza. Se, invece, il valore del bene a seguito della rideterminazione risulta essere più basso, la maggiore imposta sostitutiva versata in sede di prima valutazione rispetto a quella effettivamente dovuta (proprio a seguito della nuova rideterminazione) deve essere rimborsata, come previsto dalla lettera ff), secondo comma, dell’articolo 7 del Decreto Legge n. 70 del 2011. Pertanto, è illegittimo il diniego al rimborso qualora l’Amministrazione dichiara l’irretrattabilità della prima dichiarazione data la facoltà concessa al contribuente di poter revocare la dichiarazione di valore dell’immobile precedentemente resa, che risulta proprio dalla normativa di riferimento.
Nel caso in esame, un contribuente incarica perito di stimare il valore del terreno di proprietà e versa imposta sostitutiva da rivalutazione. In seguito, il contribuente sempre tramite perito ridetermina il valore del bene che risulta più basso rispetto all’originario e presenta istanza di rimborso per l’imposta sostitutiva in precedenza versata per oltre 3mila euro, ma poi negata dall’Amministrazione.

Ctr Lombardia, sentenza n. 476/20/18

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