Professione

Equo compenso dei professionisti, dibattito riaperto

Il parere critico dei professori Napolitano, Martuccelli e Roberti

di Maria Carla De Cesari

Torna a far discutere il disegno di legge sull’equo compenso dei professionisti all’esame Senato. Un Ddl di iniziativa parlamentare che ha ottenuto il sì della Camera e che è giudicato in maniera contrastante anche all’interno del mondo professionale, appoggiato dagli Ordini quale primo passo, criticato dalle rappresentanze sindacali perché ritenuto punitivo rispetto agli stessi professionisti.

Le prestazioni interessate dall’equo compenso sono quelle svolte sulla base di apposite convenzioni in favore di talune categorie di clienti ritenuti “forti”, che il Ddl individua in banche, assicurazioni, imprese medio-grandi, pubbliche amministrazioni e società a partecipazione pubblica. Il disegno di legge, prevede, tra l’altro, la nullità automatica di tutte le pattuizioni che prevedano un compenso inferiore ai valori fissati da appositi decreti ministeriali; la decorrenza della prescrizione del diritto a riscuotere il compenso dalla data di cessazione del complessivo rapporto tra professionista e impresa invece che dalla data di svolgimento della prestazione; l’attribuzione agli ordini professionali del potere di certificare la congruità del compenso richiesto dal professionista consentendo a quest’ultimo di aggredire il patrimonio del cliente per riscuotere tale somma, anche senza l’intervento del giudice. Si tratta di soluzioni non coerenti e non compatibili con il quadro giuridico, anche europeo secondo un parere redatto dai professori Giulio Napolitano (Università Roma Tre), Silvio Martuccelli (Università Luiss Guido Carli) e Gian Michele Roberti (La Sapienza). Le categorie di «contraenti forti» previste dal Ddl, che pure potrebbero essere individuate diversamente, sono così de*/stinate a subire gli effetti delle disposizioni in termini di aggravi dei costi e di esposizione ad azioni esecutive.

L’automatica nullità dei compensi pattuiti in misura inferiore agli importi stabiliti dai decreti ministeriali reintroduce di fatto un sistema di tariffe minime analogo a quello abrogato dal decreto Bersani nel 2006 e poi definitivamente superato dal decreto Cresci Italia nel 2012, sulla scorta delle sollecitazioni della Ue e dell’Antitrust. Un sistema rigido di tariffe minime – mette in rilievo il parere – non sarebbe giustificato da un interesse pubblico, come invece richiesto dalla direttiva Bolkenstein. Inoltre sarebbe sganciato da ogni proporzionalità dettata da esigenze di tutela dei consumatori, anche per quanto riguarda la qualità delle prestazioni. Diverso sarebbe – argomentano i tre docenti – se fosse prevista una nullità per compensi sensibilemte inferiori a determinate soglie, tenendo anche conto di altri elementi come il numero o la serialità degli incarichi.

Inoltre la prescrizione circa l’onorario non è collegata al momento della prestazione singola, ma alla data in cui cessa il complessivo e ben più lungo rapporto con l’impresa. Questa previsione dilata nel tempo la possibilità di accendere il contenzioso. La norma, per evitare rischi, porterebbe il committente a non instaurare rapporti duraturi con un professionista di riferimento, danneggiando entrambe le parti e soprattuttto il prestatore di servizi.

Infine, il parere sottolinea la previsione che consente al professionista di avviare l’esecuzione forzata del diritto all’equo compenso sulla base di una semplice certificazione di “congruità” rilasciata dall’Ordine professionale di appartenenza. Un meccanismo che sottrae al giudice la decisione circa la spettanza o meno di una determinata somma. Una deroga al sistema di garanzie per tutte le parti, perché gli Ordini non sarebbero soggetti terzi: a loro è demandata infatti anche la facoltà di instaurare class action a tutela dei loro iscritti.

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