Imposte

Per le stabili organizzazioni esteso il riporto delle perdite

di Giacomo Albano e Raniero Spaziani

È contraria al principio Ue sulla libertà di stabilimento (articolo 49 del Tfue) la legislazione di uno Stato membro che esclude la possibilità, per una società Ue che non abbia optato per un regime di tassazione consolidata mondiale, di dedurre dal proprio imponibile le perdite subite da una propria branch situata in un altro Stato membro, nella misura in cui le stesse siano ormai divenute totalmente irrecuperabili in quello Stato.

È il principio offerto dalla recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in relazione alla causa C-650/16 (cosiddetta causa Bevola). La controversia sollevata dinanzi ai giudici comunitari riguardava il caso di una società fiscalmente residente in Danimarca con stabile organizzazione in Finlandia.

A seguito della definitiva chiusura della branch, le perdite fiscali relative alla stabile non potevano essere in alcun modo recuperabili in Finlandia; da qui la richiesta della casa madre danese di poter utilizzare tali perdite per la determinazione della propria base imponibile.

La richiesta veniva tuttavia rigettata dall’amministrazione fiscale danese sul presupposto che in base alla legislazione danese tale possibilità poteva essere ammessa solo qualora la casa madre avesse optato per un regime di «integrazione fiscale internazionale». Infatti, la legislazione danese, a differenza di quella italiana, prevede l’esclusione dall’imponibile della casa madre del reddito prodotto dalla branch estera, a meno che non si sia optato per il regime sopra indicato.

Nel recepire le conclusioni formulate dall’Avvocato generale, la Corte richiama a più riprese le argomentazioni già sviluppate in seno alla giurisprudenza comunitaria, in particolare nella nota sentenza Marks & Spencer (causa C-446/03), in base alla quale le perdite maturate dalle società controllate non residenti, divenute per queste ultime irrecuperabili, possono essere recuperate da parte della controllante estera.

Rileva inoltre la Corte europea come nel caso di specie le limitazioni imposte dalla legislazione danese appaiano di fatto ingiustificate e sproporzionate rispetto alle finalità e agli obiettivi che puntano a tutelare, costituendo in ultima istanza un ostacolo al principio di libertà di stabilimento.

Osserva infatti la Corte come nessuna distorsione legata alla doppia deduzione di perdite fiscali, o un rischio di non corretta ripartizione del potere impositivo tra due diversi Stati membri può porsi laddove le perdite fiscali appaiano definitivamente irrecuperabili in una delle giurisdizioni (fiscali) coinvolte.

I contenuti e i principi enunciati nella sentenza portano a interrogarsi sulle potenziali implicazioni per le imprese italiane. Se nella generalità dei casi la normativa italiana consente di dedurre le perdite delle stabili organizzazioni estere, le indicazioni fornite dai giudici comunitari potrebbero avere effetti sulle imprese che hanno optato per il regime della branch exemption che prevede l’irrilevanza degli utili e perdite delle branch estere.

Va peraltro evidenziato che il nostro regime di branch exemption è un regime opzionale, mentre la sentenza evidenzia che il regime danese di esenzione delle branch è il regime naturale, che richiede una specifica opzione per essere disapplicato.

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