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La global minimum tax è un passo in avanti, ma la strada è ancora lunga

L’accordo a livello di g7 riguarda le aliquote, ma definire la base imponibile pone una miriade di problemi tecnici

di Mauro Marè

L’impegno del 5 giugno dei ministri delle Finanze del G7 per una global minimum tax del 15%, su una “base Paese per Paese” è importante ma è ancora lontano da una vera soluzione. È un indubbio passo in avanti, fa emergere, dopo anni difficili, un germoglio di cooperazione, denota una modifica netta della posizione degli Stati Uniti e anche della disponibilità dei giganti digitali e fa ben sperare. Ma alla luce si accompagnano diverse ombre e alcuni punti critici.

L’accordo è sulle aliquote, ma si deve estendere alla base imponibile e alla sua distribuzione nazionale. La definizione della base è ancora un problema irrisolto e da anni tiene l’inclusive framework dell’Ocse impegnato. Dal comunicato stampa dell’accordo del G7 si evince che le implicazioni pratiche vanno tutte definite. Come sempre, il diavolo è nei dettagli.

Un’aliquota sui profitti del 15% è troppo bassa, dovrebbe essere almeno del 25%, ma meglio 15 che niente. L’aliquota dovrebbe essere vicina all’aliquota minima delle imposte personali, che in molti Paesi Ocse è vicina al 25% (in Italia il 23), per ovvi motivi di allineamento tra le due imposte.

Il problema di fondo resta la distribuzione delle basi imponibili tra Paesi, che dovrà «essere legata ai dati sulle vendite (ricavi) a livello nazionale», l’unica soluzione forse per una buona localizzazione territoriale. Per definire la base imponibile c’è anche una miriade di problemi tecnici: la definizione dei profitti, le regole operative per il transfer pricing (a che beni si applica? come si valutano gli intangible? brevetti, diritti autore, software, ecc.?) per finire appunto con un criterio di distribuzione geografica della base.

La ragione delle web tax europee non è una ritorsione verso le grandi società digitali, ma è il frutto della consapevolezza che le basi imponibili siano profondamente cambiate. V’è una chiara ragione per considerare gli intangible e le attività digitali in modo originale, perché in esse si condensano le nuove basi imponibili dell’economia del web. Non stiamo dicendo che ci deve essere una tassazione specifica delle piattaforme digitali (in gergo tecnico, no ring-fencing); stiamo solo affermando che, diventando le economie sempre più digitali, è indispensabile accordare i sistemi tributari a questa attuale dimensione, con un adeguamento delle imposte alle nuove basi imponibili – il trasferimento di dati non è una nuova base imponibile? Non crea valore aggiunto?

Le piattaforme digitali e l’ecosistema digitale creano al di là dei profitti, ulteriori specifici casi di valore aggiunto che possono essere momenti di imposizione. La quantità infinita di dati che noi tutti offriamo a queste piattaforme è utilizzata per profilare gli utenti, generare big data, produrre un enorme ricchezza, spesso accumulata nei paradisi fiscali – punto controverso se l’accesso sia gratuito o meno, perché se per molte piattaforme lo è, i dati forniti hanno un valore intrinseco per il quale non v’è nessuna contropartita monetaria. Questo immenso valore aggiunto è una nuova base imponibile che non può esser sintetizzata solo dall’imposta sulle società; vanno pensati tributi adeguati.

La condizione decisiva di questo accordo, posta soprattutto dagli Usa, è che i Paesi europei rinuncino alle web tax. L’unica spiegazione di questa richiesta è che questo tipo di imposte siano molto fastidiose per gli operatori digitali. Dal punto di vista degli effetti del tributo, è vero che un’imposta sulle vendite può essere distorsiva, finire sui prezzi al consumo e causare effetti di duplicazione dell’imposta. La traslazione dell’imposta in avanti non sembra di per sé un problema, perché come sappiamo anche quella sulle società, come dimostrano 60 anni di studi sull’incidenza delle imposte, finisce per passare sui prezzi e/o sui salari. Anzi in alcuni casi – come per le imposte sui consumi – la traslazione in avanti è proprio ciò che si vuole. Ne appare in sé un problema la tesi che un’imposta simile tasserebbe le aziende italiane. Ciò appare inevitabile, se si vuole un’imposta generale; d’altro canto, un’imposta solo su aziende straniere sarebbe contraria ai trattati internazionali sulla doppia imposizione, ai princìpi del commercio internazionale e della non discriminazione.

Siccome si deve essere diffidenti per natura su queste materie, e non credo che nessuno sia in vena di regali e visto che larga parte delle aziende in questione sono statunitensi, se un Paese rinuncia a base imponibile, non è per fare un dono agli altri, ma perché la situazione attuale non è a suo vantaggio. Detto diversamente, le web tax attuali colgono nel segno e sono poco eludibili. Questo è il punto. Vanno migliorate, rivisti i limiti di fatturato e affrontati i possibili effetti di duplicazione e le distorsioni. Hanno dato finora un gettito inferiore alle aspettative, ma prima di cancellarle si deve riflettere.

Infine, andrebbe approfondita l’affermazione della volontà di trasferire i taxing right ai vari Paesi Ocse su «almeno il 20% dei profitti superiori al margine del 10%» (considerato il rendimento normale) delle aziende multinazionali più profittevoli. È un bene che parte dei profitti delle multinazionali siano riallocati sul piano territoriale. Ma come è stata calcolata questa percentuale? E perché si è deciso che il tasso di rendimento normale debba essere fissato al 10%? Sono domande a cui va data una risposta adeguata. Un passo in avanti è stato fatto, non c’è dubbio, ma siamo solo all’inizio e abbiamo davanti ancora una lunga strada.