Imposte

Affitto d’azienda, rivalutazione dei beni d’impresa senza certezze

Difficile il trasferimento della riserva dall'affittuario all’affittante a fine contratto

Affitti d’azienda e rivalutazione dei beni d’impresa: un binomio difficile. La rivalutazione dei beni d’impresa disposta dall’articolo 110 del Dl 104/2020 è ancora orfana di chiarimenti delle Entrate. In particolare, nei casi di affitto di azienda si sperava in qualche informazione in più rispetto a quanto scritto in passato, che ha suscitato più di una perplessità.

Non esiste nei principi contabili Oic un riferimento preciso sul comportamento contabile da tenere in caso di affitto azienda, se non per l’indicazione (alla voce B.13 «Altri accantonamenti» del conto economico, secondo il documento Oic 12) del fondo manutenzione e ripristino dei beni di azienda condotta in affitto o in usufrutto, poi meglio descritto nel principio contabile Oic 31. Sull’iscrivibilità o meno dei beni concessi in affitto nel bilancio dell’affittuario, ad esempio, non c’è una posizione ufficiale. Il tema non viene affrontato neppure nel recente documento interpretativo n. 7, specificatamente dedicato alla rivalutazione.

Secondo la posizione espressa in più occasioni dall’Agenzia (da ultimo, con la circolare 14/E/2017), qualora nel contratto di affitto di azienda sia stato stabilito, in conformità al disposto dell’articolo 2561 del Codice civile, che l’affittuario sia gravato dall’obbligo di mantenere in efficienza i beni ricevuti – potendone dedurre i relativi ammortamenti ex articolo 102, comma 8, del Tuir – la rivalutazione può essere effettuata dall’affittuario stesso. In caso contrario è, invece, il proprietario a poter rivalutare, ben inteso quando si trovi nella condizione di poterlo fare (l’imprenditore individuale che ha affittato l’unica azienda ci sembra da escludere, ad esempio).

Si sottovaluta che la rivalutazione è, prima di tutto, una operazione contabile e civilistica e, sotto questo aspetto, va ricordato che, civilisticamente, non si procede a stanziare ammortamenti ma, come sopra visto, degli accantonamenti.

Quanto sostenuto dall’Agenzia pare trovare migliore collocazione nel caso in cui l’affittuario abbia contabilmente iscritto i beni in bilancio come propri, anche se Assonime (circolare 6/2021) ha affermato come la soluzione indicata dalle Entrate debba valere non solo «quando l’affittuario abbia preso in carico i beni dell’azienda oggetto del contratto di affitto» (impostazione ritenuta dall’Associazione come più corretta, presumibilmente per la prevalenza della sostanza sulla forma) «ma anche qualora non lo abbia fatto e, quindi, anche nell’ipotesi in cui i beni non trovino evidenza nel bilancio dell’affittuario relativo all’esercizio precedente rispetto a quello della rivalutazione».

Se è evidente che queste conclusioni dovrebbero trovare una espressa conferma in via ufficiale, ciò che proprio appare difficile da gestire è il comportamento indicato dall’Agenzia al termine del contratto di affitto, che prevede che l’affittuario trasferisca al concedente i beni rivalutati e la relativa riserva di rivalutazione.

Se nulla quaestio sulla restituzione del bene (contrattualmente prevista), il trasferimento di una quota del patrimonio netto dal bilancio dell’affittuario a quella dell’affittante ci sembra di difficile realizzazione pratica e foriera di dubbi a non finire. E ciò non solo perché, nel frattempo, l’affittuario potrebbe aver proceduto alla distribuzione di detta riserva o alla copertura di perdite (deliberando la sua riduzione definitiva ai sensi del comma 2 dell’articolo 13 della legge 342/2000), ipotesi citata dalla stessa Agenzia apparentemente senza alcuna conseguenza né dal lato fiscale né da quello dei rapporti interni tra le parti contrattuali. Ma, soprattutto, perché, nelle società di capitali, il patrimonio netto è posto a tutela dei terzi e non è mai oggetto di “trasferimento”, se non nelle ipotesi di operazioni straordinarie “sui soggetti” (fusioni e scissioni in primis). Come sia possibile, del resto, che l’affittante si veda incrementare il proprio patrimonio netto in virtù di una opzione da altri esercitata resta un mistero. Altrettanto difficile da comprendere è come possa l’imposta sostitutiva «riferibile alla riserva trasferita al concedente» costituire, per il concedente stesso, un credito d’imposta. Da utilizzare quando e in che modo non è dato sapere.

È evidente che questi aspetti, a tutela dei soggetti che intendono rivalutare in costanza di affitto d’azienda, dovrebbero essere affrontati in modo più chiaro e puntuale, sia sotto l’aspetto contabile che dal lato delle conseguenze tributarie.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©