Imposte

Iva non dovuta, il tribunale condanna il Fisco per danni

di Alessandro Galimberti

Iva indebitamente incassata e non restituita, nonostante i solleciti del contribuente e nonostante un parere conforme - sull’indebita percezione - dell’amministrazione stessa. La Prima sezione civile del Tribunale di Milano ha condannato l’agenzia delle Entrate alla restituzione di 1,1 milioni di euro - più interessi legali a partire dal 1998, in aggiunta alle spese processuali - all’esito di un tortuoso contenzioso con la divisione italiana di una società farmaceutica tedesca. Il principio affermato dal giudice Nicola Di Plotti (sentenza 2515/17 del 27 febbraio ) è che la leale collaborazione tra fisco e contribuente prevale anche sul diritto tributario sostanziale, in particolare su preclusioni e decadenze.

Il caso ricostruito negli atti è un classico esempio di complicazione di cose semplici, e soprattutto di incapacità di correggere i propri errori di organizzazione e di relazione da parte della Pa stessa.

La multinazionale per diversi anni aveva ceduto ad aziende ospedaliere - a titolo gratuito - apparecchiature mediche di scarso valore commerciale, e immediatamente - a febbraio e a novembre del 2000 - aveva chiesto alle Entrate se tali cessioni avessero dovuto comprendere l’Iva. Per due volte l’amministrazione (agosto del 2000 e marzo dell’anno successivo) aveva risposto affermativamente, inducendo la società a versare per intero l’imposta. Tuttavia il contribuente aveva presentato un interpello - e siamo nel luglio del 2004 - sottolineando nuovamente che si trattava di cessioni a titolo gratuito e, nell’ottobre successivo, l’Agenzia aveva risposto ritenendo «condivisibile la soluzione interpretativa prospettata dal contribuente, nel senso che le cessioni (in proprietà) di beni di modico valore si possono considerare estranee al campo di applicazione dell’imposta sul valore aggiunto».

Nel gennaio del 2006 la società presentava quindi la richiesta di rimborso, a cui le Entrate risposero cinque mesi dopo eccependo la «non tempestività della domanda», in sostanza la decadenza dal diritto. Da lì iniziò il contenzioso processuale, con la Ctp che riconosceva le ragioni del contribuente ma rimetteva alla Cassazione sull’effettiva esigibilità del rimborso (negata), che a sua volta restituiva gli atti alla Ctr. Questa, e siamo al 2014, dichiara decorso il termine per la restituzione dell’Iva non dovuta, ma ipotizza una responsabilità extracontrattuale dell’Agenzia (articolo 2043 del codice civile) su cui si dichiara ovviamente priva di giurisdizione.

Il capitolo finale - a meno di imprevedibili impugnazioni - lo scrive quindi il giudice ordinario del tribunale milanese , sottolineando che è ravvisabile «un comportamento omissivo che integra gli estremi della colpa da parte della Pa, perfettamente conscia di avere nella propria disponibilità somme alla stessa non dovute che tuttavia non vengono restituite in violazione del principio di leale collaborazione» previsto dallo Statuto del contribuente. Peraltro la stessa Cassazione aveva stabilito (21088/2010) che anche la Pa deve applicare i concetti civilistici generali di correttezza e buona fede come corollario del «buon andamento» costituzionale. Da qui la condanna alle restituzioni e al pagamento di oltre 21mila euro di spese processuali.

«Si tratta - commenta a margine della sentenza l’avvocato Francesco Luigi De Luca che ha difeso l’azienda con Federico Pau - di una sentenza storica: un giudice ha ritenuto l’agenzia delle Entrate responsabile dei danni extracontrattuali causati con il proprio comportamento, nella specie, per errata risposta ad un interpello, nei confronti di un'impresa».

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