Diritto

Partecipazioni, intrasferibilità parziale nello statuto

Diramate due massime del Consiglio Notarile di Milano. Chiarimenti anche sul tetto minimo al possesso di azioni

di Mario Notari

La prassi societaria presenta talvolta esigenze che non trovano risposta nelle soluzioni già approdate nelle clausole statutarie di comune utilizzo e che vengono quindi soddisfate per mezzo di patti parasociali, accompagnati da mandati fiduciari. L’evoluzione del diritto societario, tuttavia, richiede che anche queste esigenze vengano vagliate alla luce del sistema di norme che disciplinano spa e srl, per verificare se e in che limiti esse possano trovare accoglimento in clausole statutarie da diffondere nelle consuetudini degli operatori.

In questa direzione cerca di indirizzarsi l’attività della Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano. E l’attenzione è stata di recente posta su due particolari tipologie di clausole statutarie.

La prima (massima n. 201 del 5 luglio) concerne la possibilità di prevedere in statuto un vincolo intrasferibilità parziale delle partecipazioni sociali, che cioè impediscono ai soci di alienare solo una parte delle proprie azioni o della propria quota, per evitare il disinvestimento parziale da parte del socio uscente, al quale verrebbe quindi posta l’alternativa tra mantenere la propria partecipazione oppure dismetterla integralmente. Inoltre, la clausola potrebbe vietare anche l’alienazione (della propria intera partecipazione) a una pluralità di soggetti, aggiungendosi così anche la finalità di evitare un eccessivo frazionamento delle partecipazioni sociali.

La seconda massima (n. 202) prende invece in considerazione l’introduzione di un «tetto minimo» al possesso di azioni o quote. Si tratta di una disposizione speculare a quella del «tetto massimo» al possesso azionario, più nota nella prassi e prevista anche dalla legge in taluni casi.

Le clausole che impongono un «tetto minimo» possono assumere una diversa configurazione: (i) possono declinarsi come limiti alla circolazione delle azioni, con la conseguenza che esse trovano rimedio, in caso di loro violazione, alla stregua di ogni altro acquisto di partecipazione compiuto senza rispettare le regole statutarie, rendendo inefficace il trasferimento nei confronti della società; (ii) possono assumere rilevanza a prescindere dalla vicenda di circolazione delle azioni o quote, e quindi valere per tutti i soci in qualsiasi momento della vita della società, quale “requisito” necessario per conseguire la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali.

Questa seconda configurazione presenta profili di criticità, in quanto si deve ritenere in linea di principio incompatibile con la disciplina societaria una clausola del «tetto minimo» del possesso di azioni o quote che subordini il riconoscimento dello status socii al rispetto del limite minimo di possesso. Essa deve ritenersi invero ammissibile allorché sia configurata come «requisito per la legittimazione dei diritti sociali», a condizione che abbia ad oggetto solo una parte dei diritti sociali, limitatamente ai diritti sociali che siano disponibili dall’autonomina statutaria (diritto di voto, di intervento in assemblea ecc.), alla luce della disciplina propria di ciascun tipo sociale, tenendo conto dell’effetto che la clausola produrrebbe in ordine all’insieme dei diritti spettanti alle singole partecipazioni sociali.

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