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Enti di formazione professionale, il fallimento prescinde dall’assenza di scopo di lucro

Con l’ordinanza 4418/2022 la Cassazione torna a fare il punto circa l’applicazione delle procedure fallimentari agli enti non profit

Il fallimento dell’ente di formazione professionale prescinde dall’assenza di scopo di lucro. Con l’ordinanza 4418/2022 la Cassazione torna a fare il punto circa l’applicazione delle procedure fallimentari agli enti non profit. Un tema non poco discusso, specie tenuto conto che la disciplina generale include nel novero soggettivo i soli «imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici» (articolo 1, comma 1, del Rd 267/42).
In particolare, il caso sottoposto all’attenzione dei giudici riguarda un ente associativo operante nel settore della formazione professionale le cui entrate derivavano in parte da contributi pubblici, in parte da corrispettivi privati.

Proprio l’assenza di gratuità nell’erogazione della prestazione e l’attitudine a conseguire un risultato economico, a dire della Corte, conduce a ritenere l’attività dell’associazione svolta con modalità commerciali. Con la conseguenza che anche tali tipologie di enti, a prescindere dalla loro forma giuridica, dovranno essere incluse nel novero degli imprenditori commerciali fallibili.

L’indirizzo della Corte è, del resto, conforme all’orientamento giurisprudenziale previsto sia a livello nazionale che unionale. Con la sentenza 29245/21 la Cassazione ha infatti già riconosciuto il principio di fallibilità degli enti non profit nella misura in cui gli stessi svolgono attività secondo criteri di economicità. Ciò in quanto lo scopo di lucro soggettivo (i.e. ripartizione utili) rappresenta il movente soggettivo che induce a svolgere attività d’impresa ma non rileva, secondo la Corte, ai fini del riconoscimento della qualità di imprenditore commerciale.

Quest’ultima sussiste infatti tutte le volte in cui vi sia una obiettiva economicità della gestione, intesa come proporzionalità costi/ricavi (lucro oggettivo). Discorso diverso, invece, ove l’attività sia svolta in modo gratuito. In quest’ipotesi, la prestazione è ex se non economica, a prescindere dal fine altruistico o meno della stessa (Cassazione, sentenza 22955/2020).

In questo senso, si pone anche la Corte di giustizia Ue che adotta una nozione di imprenditore più ampia rispetto a quella nazionale, includendo qualsiasi entità che svolga un’attività economica, indipendentemente dalla veste giuridica e dalle modalità di finanziamento (Cgue, C-41-90).

Il quadro sinora tracciato è, peraltro, in linea anche con il nuovo modello di ente del Terzo settore (Ets). Il Codice (Dlgs 117/2017 o Cts) qualifica, infatti, come Ets tutti quegli enti privati che perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche solidaristiche e di utilità sociale, nei settori di interesse generale di cui all’articolo 5 del Cts, indipendentemente dalle modalità (commerciali/ non commerciali) di svolgimento delle attività stesse.

Si tratta, dunque, di enti che – ferma l’assenza di scopo di lucro e l’obbligo di reinvestire gli utili per i propri fini solidaristici – non restano fuori dagli schemi imprenditoriali. Essendo senz’altro possibile dotarsi della veste di Ets e svolgere attività d’interesse generale con modalità commerciali. Prova ne è l’impresa sociale, quale specifica tipologia di Ets che può costituirsi anche in veste societaria e alla quale è espressamente ammessa la disciplina della liquidazione coatta amministrativa (articolo 14 del Dlgs 112/2017). Una previsione che non esclude in ogni caso l’assoggettabilità a fallimento, come si evince dall’espresso richiamo contenuto nel Codice all’articolo 2394-bis del Codice civile relativo alle azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali di tutti gli Ets (articolo 28 del Dlgs 117/2017).