Al giudice l’onere di vagliare l’attendibilità delle dichiarazioni rilasciate da familiari
Le dichiarazioni rese rilasciate dai familiari di un contribuente, acquisite in sede di chiarimenti richiesti dall’Ufficio nelle fasi istruttorie di un accertamento e inserite, a scopo difensivo, anche nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non costituiscono elusione del divieto di introdurre prova testimoniale nel processo tributario. Sono i giudici di merito che, tuttavia, hanno l’onere sia di vagliarle che di argomentare sulla loro attendibilità, in quanto, senza una congrua motivazione sulla loro plausibilità, non possono essere mai poste a fondamento di una decisione «prove dichiarative trasfuse in scritture private non autenticate, che non provengono da pubblici ufficiali legittimati a verbalizzarle con efficacia fidefacente recependole da una dichiarazione extraprocessuale priva di valenza probatoria». A tali conclusioni è giunta la Suprema Corte, con l’ordinanza 21315/2018 ( clicca qui per consultarla ).
Affrontando le specifiche forme tramite le quali sarebbe stato possibile ritenere provato un transito «endofamiliare» di risorse finanziarie per giustificare incrementi patrimoniali sinteticamente accertati in base all’articolo 38 del Dpr 600/1973 (ante Dl 78/2010), i massimi giudici hanno affermato che nella sentenza della Ctr del Piemonte impugnata dalle Entrate (che aveva confermato la sentenza di primo grado e l’annullamento dell’avviso di accertamento), i giudici non avessero ben governato i princìpi sull’onere della prova.
Nello specifico, il ricorrente aveva stipulato un rogito per perfezionare un acquisto immobiliare per 300mila euro e tale fatto è divenuto generatore di reddito sinteticamente accertabile a suo carico. Egli, tuttavia, affermava che non vi fosse stato anche un corrispondente e reale esborso finanziario, atteso il fatto che, da un lato, l’assegno rilasciato al venditore (uno zio) non fosse stato mai incassato, mentre, dall’altro lato, altre somme accertate per effetto della compravendita sarebbero state, invece, ascrivibili ad una rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare da parte della madre e dalla sorella del ricorrente, in ragione di presunte disposizioni extra-testamentarie del loro defunto padre, volontà che, tuttavia, non era comprovata da una formale rinuncia all’eredità, ex articolo 519 del Codice civile.
Per il collegio di legittimità, l’impianto probatorio che sorregge gli accertamenti induttivi, con cui l’Amministrazione ricava un fatto ignoto da un fatto noto (compreso, quindi, il “vecchio” redditometro), ha valenza presuntiva a cui è possibile opporre prova contraria anche indiziaria, purché, però, gli indizi siano gravi precisi e concordanti e la motivazione stringente (Cassazione 16531/2018, 1510/2017, 1332/2016). Nel caso, quindi, di dichiarazioni riportate in atti, devono essere i giudici del merito a motivare sulle ragioni per le quali quelle informazioni possano ritenersi attendibili e verosimili le conseguenti sostanziali delle stesse.
Sulla base, quindi, del principio di parità delle parti, nonché di effettività della difesa, le dichiarazioni rese da terzi possono valere sia a favore che contro il contribuente ed entrare, quindi, nel processo per formare il convincimento del giudice (Cassazione, 5018/2015): ma per essere poste a fondamento della decisione deve esserne congruamente motivata la ragione.
Cassazione, ordinanza 21315/2018