Anche la società con sede all’estero responsabile per il decreto 231
Per la Cassazione la casa madre straniera risponde dei fatti compiuti dai propri dipendenti in Italia
Anche la società straniera risponde sulla base del decreto 231 degli illeciti commessi da propri dipendenti in Italia. Anche se la legislazione del Paese di appartenenza non prevede norme che disciplinano la medesima materia con riferimento, per esempio, alla predisposizione e efficace attuazione di modelli organizzativi idonei a impedire la commissione di reati fonte di responsabilità amministrativa. A queste importanti conclusioni approda la Corte di cassazione con il principio di diritto che scandisce la parte finale della sentenza 11626 della Sesta sezione penale.
In questo senso, deve essere recepito quanto affermato di recente dalla giurisprudenza di merito nel caso dell’incidente di Viareggio, dove il decreto 231/2001 è stato ritenuto applicabile anche a una società straniera priva di sede in Italia, ma attiva sul territorio nazionale.
Nel caso esaminato, a due società collegate tra loro e riconducibili a una holding internazionale era stata inflitta dalla Corte d’appello di Roma una sanzione di 600mila euro complessivi per il vantaggio ottenuto dalla commissione di reati di corruzione semplice e corruzione in atti giudiziari da parte di amministratori rappresentanti delle società. Attraverso la dazione di somme di denaro le società “incriminate” erano riuscite a ottenere la disponibilità di cospicui beni derivanti da un precedente fallimento.
Tra i motivi di ricorso aveva trovato posto anche la contestazione della giurisdizione italiana, fondata sul fatto che alla società con sede legale all’estero non può essere contestata una colpa di organizzazione, se non nel luogo dove è collocato il centro decisionale.
La magistratura competente, nella lettura difensiva, deve essere quella del luogo dove si è verificata la lacuna organizzativa; tanto più che le società imputate non hanno in Italia un’effettiva operatività, ma vi svolgono solo un’attività formale.
Per la Cassazione tuttavia, la responsabilità amministrativa degli enti è innanzitutto derivata da quella penale, con la conseguenza che la giurisdizione va valutata con riferimento al reato presupposto, «a nulla rilevando che la colpa in organizzazione e dunque la predisposizione di modelli non adeguati sia avvenuta all’estero». Coerentemente con questa impostazione allora, il decreto 231 affida la competenza sugli illeciti amministrativi al giudice penale titolare del fascicolo sui reati dai quali dipendono ed esprime un netto favore per lo svolgimento di un unico processo per accertare insieme reato e illecito amministrativo.
Inoltre, a corroborare la linea favorevole all’affermazione della giurisdizione nazionale, c’è l’esplicita considerazione, da parte del decreto 231, del caso opposto, quello del reato commesso all’estero da società italiana.
A essere affermata è la giurisdizione nazionale, a meno che non stia procedendo anche lo Stato del luogo dove è stato commesso il fatto.
Si realizza in questo modo una parificazione rispetto a quanto previsto per l’imputato persona fisica, fatto salvo il principio del ne bis in idem internazionale.
Ancora, va respinta la tesi difensiva per la quale l’affermazione della competenza della magistratura italiana potrebbe costituire trattamento discriminatorio fra soggetti giuridici comunitari in violazione della libertà di stabilimento. Anzi, rappresenterebbe, avverte la Cassazione, un’alterazione della libera concorrenza vincolare le sole imprese italiane a sostenere costi organizzativi dai quali sarebbero esenti le società straniere.
Va poi ricordato, afferma la sentenza, come il decreto legislativo 179/04 (in attuazione della direttiva 2001/24/Ce sul risanamento e liquidazione delle banche) ha esteso la responsabilità amministrativa per l’illecito dipendente da reato alle succursali italiane di banche comunitarie o extracomunitarie.