Applicazione tutta in salita per le donazioni agevolate del decreto Cura Italia
Le previsioni dell’articolo 66 del provvedimento sono di difficile attuazione
L’articolo 66 del decreto legge n. 18 del 17 marzo 2020 (Cura Italia) ha previsto alcuni incentivi fiscali per le erogazioni in denaro ed in natura effettuate da persone fisiche ed imprese, con l’intento di sostenere economicamente l’emergenza epidemiologica da COVID-19 che noi tutti stiamo vivendo.
L’articolo stabilisce, al primo comma, le modalità operative per l’effettuazione delle erogazioni da parte delle persone fisiche; il secondo comma, invece, disciplina le erogazioni effettuaate dai titolari di reddito d’impresa.
Trattandosi di un incentivo che esplica effetti sul piano fiscale, per non incorrere negli anni futuri in possibili inconvenienti di non deducibilità/detraibilità, occorre sin da subito inquadrare la disposizione normativa dal punto di vista oggettivo e soggettivo.
In prima battuta, dal punto di vista oggettivo, parrebbe emergere una divergenza tra le finalità indicate al comma 1 e quelle richiamate al comma 2. Infatti, per quel che attiene le erogazioni liberali effettuate dalle persone fisiche, il legislatore precisa puntualmente che la detrazione è riconosciuta alle donazioni effettuate «in favore dello Stato, delle regioni, degli enti locali territoriali, di enti o istituzioni pubbliche, di fondazioni e associazioni legalmente riconosciute senza scopo di lucro, finalizzate a finanziare gli interventi in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19».
Al contrario, il comma 2 del citato art. 66, riguardante le erogazioni liberali effettuate da soggetti titolari di reddito d’impresa (per i quali, lo ricordiamo, è prevista una deduzione integrale dal reddito), anziché effettuare un richiamo normativo alle medesime finalità già disciplinate al comma 1, si limita a rilevare che «er le erogazioni liberali in denaro e in natura a sostegno delle misure di contrasto all’emergenza epidemiologica da Covid-19, […], si applica l’articolo 27 della legge 13 maggio 1999, n. 133». Tale ultimo richiamo normativo potrebbe trarre in inganno gli operatori che si trovano in questi giorni a voler elargire somme o beni di prima necessità. Ciò in quanto l’art. 27 della Legge n. 133/1999, introdotto dal legislatore per consentire l’integrale deducibilità delle erogazioni effettuate in favore delle popolazioni colpite da calamità pubbliche, al comma 1, recita: “Sono deducibili dal reddito d’impresa ai fini delle relative imposte le erogazioni liberali in denaro effettuate in favore delle popolazioni colpite da eventi di calamità pubblica o da altri eventi straordinari anche se avvenuti in altri Stati, per il tramite di fondazioni, di associazioni, di comitati e di enti».
Coordinando le due disposizioni normative, rimane il dubbio in ordine all’individuazione dell’ambito oggettivo di applicazione della disposizione normativa per i soggetti titolari di reddito d’impresa. La relazione illustrativa al Decreto Cura Italia, purtroppo, non aiuta in tale analisi. Sarebbe opportuno, onde evitare possibili contestazioni future, che il legislatore, in fase di conversione del Decreto, provvedesse a chiarire meglio tale aspetto, anche per consentire un maggiore e più sereno afflusso di aiuti al fine di sostenere chi sta lavorando in prima linea nel contenimento dell’epidemia.
Altro tema di non trascurabile rilevanza è quello di cui al comma 3 dell’art. 66 del Dl n. 18/2020: le modalità di valorizzazione dei beni in natura stabilite dal legislatore. Infatti, il comma 3 precisa che «aii fini della valorizzazione delle erogazioni in natura di cui ai commi 1 e 2, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli articoli 3 e 4 del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 28 novembre 2019». L’art. 3 del decreto da ultimo richiamato (tra l’altro pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 30 gennaio 2020) statuisce, al comma 1, che, ai fini della valorizzazione delle erogazioni liberali in natura, la deduzione spettante deve essere quantificata sulla base del cd. valore normale, in forza del richiamo operato all’art. 9 del Testo unico delle imposte sui redditi. Per quanto riguarda, invece, le erogazioni liberali aventi ad oggetto un bene strumentale, l’ammontare della detrazione o della deduzione è determinato con riferimento al residuo valore fiscale all’atto del trasferimento. Il comma 3, poi, trattando dei casi di erogazioni liberali aventi ad oggetto beni merci, ossia beni che la società normalmente commercializza, stabilisce che l’ammontare della detrazione o della deduzione deve essere determinato con riferimento al minore tra il valore normale e quello determinato applicando le disposizioni dell’art. 92 del TUIR. Infine, il comma 4 dell’art. 3 del citato decreto ministeriale dello scorso novembre, evidenzia che “fuori delle ipotesi di cui ai commi 2 e 3, il valore della cessione, singolarmente considerata, determinato in base al comma 1, sia superiore a 30.000 euro, ovvero, nel caso in cui, per la natura dei beni, non sia possibile desumerne il valore sulla base di criteri oggettivi, il donatore dovrà acquisire una perizia giurata che attesti il valore dei beni donati, recante data non antecedente a novanta giorni il trasferimento del bene”.
Ed è proprio in tale ultima ipotesi che – con molta probabilità – dovranno essere inquadrate le donazioni che, nelle ultime settimane, imprese e società di tutto il Paese stanno elargendo alle aziende sanitarie per la lotta al coronavirus, non trattandosi di donazioni in denaro.
Sono, infatti, le stesse amministrazioni pubbliche che chiedono ai propri donatori di acquistare direttamente sul mercato i dispositivi medici di cui gli ospedali in questo momento hanno bisogno e di donare tali beni, configurandosi, pertanto, donazioni in natura.
Al contrario, ricevendo donazioni in denaro, gli ospedali si troverebbero in estrema difficoltà, poiché – a causa degli intricati iter burocratici – non avrebbero la possibilità di acquistare tempestivamente i macchinari e gli altri presidi di cui necessitano.
Purtroppo, la disciplina non appare sufficientemente esplicativa sul punto.
Infatti, dalla lettura del predetto comma 4 non è chiaro cosa si intenda per “valore della cessione singolarmente considerata”: occorre, ad esempio, riferirsi ad un solo dispositivo medico oppure, qualora il donatore ne acquisti diversi ed in unica soluzione, il valore della cessione è l’intero set di dispositivi acquistati?
Ancora, non è di immediata comprensione la portata dell’inciso «ovvero, nel caso in cui, per la natura dei beni, non sia possibile desumerne il valore sulla base di criteri oggettivi»: in particolare, ci si domanda se, nel caso in cui il valore del bene superi euro 30.000,00, il legislatore volesse consentire ai donatori di evitare una perizia, oppure se tale frase è solo utilizzata per determinare il valore del bene nel caso in cui non sia di facile individuazione.
Purtroppo, nessuna delucidazione è arrivata in soccorso agli operatori del settore nemmeno su tale aspetto. Tuttavia, il legislatore ha inserito il richiamo all’art. 3 anche nel decreto Cura Italia. Tenendo a mente che il decreto ha lo scopo di contrastare l'emergenza sanitaria in corso, la via della chiarezza e della semplificazione dovrebbe essere preferita. L'auspicio è quello che il legislatore stabilisca esplicitamente, all’interno dell'art. 66, che la donazione di dispositivi medici per il contrasto all'emergenza da Covid-19 non necessita di perizia, a prescindere dal valore del bene o della cessione ed a prescindere dallo status del donante.