Controlli e liti

Auto storiche, plusvalenza «salva» per il collezionista

Per la Ctp di Brescia è reddito diverso quello che deriva da attività commerciale

di Stefano Sereni

La plusvalenza che deriva dalla cessione di auto storiche non è automaticamente da assoggettare a tassazione: la mera esistenza infatti di un differenziale positivo tra il corrispettivo di vendita e il costo di acquisto, non è di per sé reddito imponibile, poiché non esiste alcun automatismo.
Solo se l’attività è esercitata non occasionalmente, con adeguati mezzi volti al fine di lucro e con l’elemento della commercializzazione costituisce un reddito diverso.
Sono i principi affermati nella sentenza 261/2020 della Ctp di Brescia - sezione 2 (presidente Vitali, relatore Seddio), depositata lo scorso 9 luglio.

In seguito a indagini finanziarie l’ufficio chiedeva informazioni a un contribuente su una serie di somme che risultavano versate sul suo conto corrente. Si trattava di versamenti conseguenti alla cessione di autovetture storiche precedentemente acquistate e poi rivendute a un prezzo maggiorato.

L’Agenzia contestava al contribuente lo svolgimento di attività commerciale, non esercitata abitualmente, riprendendo a tassazione come redditi diversi (ex articolo 67 comma 1 del Tuir) la differenza tra il prezzo di vendita delle autovetture e l’originario costo di acquisto, per un totale di oltre centomila euro.

In particolare, la norma classifica “diversi”, i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente. Il contribuente ricorreva alla commissione tributaria, eccependo l’infondatezza della tesi erariale.

La Ctp di Brescia ha accolto il ricorso, escludendo la sussistenza dei presupposti per configurare un’attività commerciale non esercitata abitualmente e quindi assoggettabile a tassazione.

I giudici hanno, innanzitutto, evidenziato che tale categoria deve presentare due fondamentali caratteristiche: molteplici rapporti con i terzi per pianificare gli acquisti e le vendite dei beni, e un’organizzazione riconoscibile, supportata anche da un contributo esterno, ad esempio dal credito bancario.

Il ricorrente, invece, risultava solo un mero collezionista, appassionato di autovetture d’epoca, che acquistava e rivendeva senza alcuna regola o gestione imprenditoriale.

L’incremento del valore dei beni venduti, considerata plusvalenza tassabile dall’ufficio, non era infatti frutto dello svolgimento di un’attività commerciale finalizzata al profitto, ma solo riconducibile alla naturale lievitazione delle quotazioni delle vetture d’epoca, senza che il contribuente avesse adottato tecniche particolari volte alla massimizzazione dei ricavi.

Mancavano infatti, elementi basilari e imprescindibili per una qualunque attività commerciale, come la promozione delle cessioni, la pubblicità, le partecipazioni ad eventi e fiere, le continue trattative per le compravendite, un sito internet. In sintesi, mancava l’elemento della commercializzazione che l’ufficio aveva ravvisato solo nella sussistenza di un differenziale positivo tra valore di vendita e costo di acquisto.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©