Professione

Commercialisti e specializzazioni, la strada alternativa della professione

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di Redazione Quotidiano del Fisco

Prosegue il confronto sulle specializzazioni lanciato da Massimo Miani, presidente Cndcec, nell’intervista rilasciata il 1° giugno al Sole 24 Ore (clicca qui per rileggerla). Per inviare commenti usare la mail ilmiogiornale@ilsole24ore.com.

Una progressiva integrazione

Quella dei commercialisti è una professione al bivio. Probabilmente lo era già qualche anno fa. La discussione sulle specializzazioni è la punta dell’iceberg di un fenomeno complesso e lontano nel tempo. È la dimostrazione che la categoria è variegata e complessa, non solo in termini territoriali. L’articolo 1 del nostro ordinamento, infatti, individua ambiti di intervento molto diversi. Nel corso degli anni tali differenze si sono acuite di pari passo con le difficoltà operative ed economiche.

Quella che in passato era una pacifica convivenza, sotto il comune titolo professionale, oggi è diventata una lotta fratricida fra aspiranti specializzati e generalisti. Se da un lato le proposte finora avanzate sulle specializzazioni non colgono la genesi del problema, calando dall’alto soluzioni incomprensibili per la maggioranza degli iscritti, ogni proposta non può prescindere dalla consapevolezza che l’attività a basso valore aggiunto costituisce una strategia a brevissimo termine. Continuare imperterriti nella corsa alle tenute contabili ci espone, come accaduto negli ultimi anni, a una concorrenza insostenibile: quella degli abusivi, quella delle esternalizzazioni in Ced a basso costo di manodopera; quella dell’evoluzione tecnologica. In altri termini, agire ignorando l’involuzione competitiva in corso significherebbe condannarci ad altri dieci anni di sofferenze.

Il mio auspicio, allora, è che la discussione pubblica sulle specializzazioni si trasformi in un momento di confronto mediante il quale si pervenga alla definizione di una strategia sostenibile nel tempo, che sia essa specializzata o generalista.

Entrambe le soluzioni hanno eguale dignità. La prima deve rappresentare un necessario processo di crescita professionale, perché a maggiori competenze, oltre al riconoscimento economico, corrisponde una migliore qualità del lavoro. La seconda, per uscire dalla concorrenza al ribasso, deve pretendere un riconoscimento pubblicistico, affinché il nostro visto sulla contabilità aziendale acquisisca un valore intrinseco e diventi spendibile dai clienti per ottenere condizioni migliorative sul mercato o nei confronti della stessa amministrazione finanziaria. Quella che immagino è una professione che decida di puntare sulla qualità, avviando una progressiva integrazione delle specializzazioni in un percorso di crescita professionale e si presenti sul mercato con l’autorevolezza di chi ha deciso finalmente da che parte stare.

Attenti ai sotto-albi

Benissimo la specializzazione, ma invito a riflettere sull’inutilità dei troppi sotto-albi nonché della formazione obbligatoria che contempla varie sotto materie per ogni sotto-albo. Visto che si fa il paragone con i medici, si vedano gli avvocati che nonostante le varie specializzazioni non hanno sentito il bisogno di fare sotto categorie.

Il vero nodo è la deontologia

Le specializzazioni sono sempre esistite. Brandire il falso problema dell’emancipazione dei processi aziendali significa essere qualunquisti e voler inseguire un modello che porta a snaturare e ridurre la professione alla stregua di soggetti manipolati per rendere servizi non retribuiti e formazione obbligatoria che più che formare erode tempi da dedicare allo studio e svuota le tasche. Un tempo il professionista specializzato sceglieva autonomamente di approfondire gli ambiti tematici verso i quali era incline.

Invero, in ogni professione vi è una scala di merito alla quale il soggetto sceglie liberamente di posizionarsi. Quindi, imporre a chiunque di formarsi per entrare in registri o elenchi crea ulteriori scale di merito senza risolvere il vero problema che a mio avviso è la deontologia e l’etica delle quali non si occupa nessuno.

Lo studio associato? Bene, serve solo a mitigare i costi e a non sentirsi soli. Per il resto nulla muta rispetto al singolo studio ove vi fosse più senso di appartenenza e deontologia.

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