Controlli e liti

Compensi amministratori, la delibera dei soci non è implicita con l’ok al bilancio

La Cassazione torna ad occuparsi della deducibilità dei compensi erogati agli amministratori da una società di capitali

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di Andrea Vasapolli

Con l’ordinanza 7329/2021 la Corte di cassazione è tornata ad occuparsi della deducibilità dei compensi erogati agli amministratori da una società di capitali nel caso in cui gli stessi non siano stati formalmente deliberati dai soci o dal consiglio di amministrazione in base all’articolo 2389 del Codice civile, in una vicenda nella quale si desume che gli stessi fossero anche soci della società.

Confermando un consolidato orientamento la Suprema corte ha statuito che la deliberazione dei soci non può essere considerata implicita nell’approvazione del bilancio che esponeva tali compensi (salvo che tale assemblea, costituita in forma totalitaria, avesse espressamente deliberato in merito, Cassazione Sezioni Unite, n. 21933/2008) e che tali compensi sono indeducibili per la società in quanto solo «la specifica delibera assembleare costituisce la fonte della obbligazione patrimoniale».

La mancanza della deliberazione comporta la assoluta e insanabile nullità, in base all’articolo 1423 Cc, dell’atto stipulato dall’amministratore della società in materia riservata alla competenza assembleare e quindi, secondo ripetuti pronunciamenti della Suprema Corte, l’indeducibilità del costo in base all’articolo 109 del Tuir, per carenza del requisito della obiettiva determinabilità dell’ammontare (Cassazione Sezione V, n. 21953/2015).

Si ritiene che tale principio trovi applicazione anche per le Srl anche se, a seguito della riforma del diritto societario recata dal Dlgs n. 6/2003, l’applicabilità delle disposizioni dell’articolo 2389 Cc non è più richiamata per tale tipo di società.

La Commissione tributaria regionale che aveva accolto il ricorso della società aveva ritenuto deducibili tali compensi, a fronte della prova fornita che gli stessi erano stati assoggettati ad imposizione in capo ai percipienti, sul presupposto che altrimenti sarebbe stato violato il divieto di doppia imposizione previsto dall’articolo 67 del Dpr n. 600/1973.

Secondo tale norma, che disciplina il divieto della cosiddetta doppia imposizione giuridica, «la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi». Identica previsione è contenuta nell’articolo 163 Tuir.

In verità questo divieto, che secondo taluni è solo espressione in ambito tributario del “ne bis in idem” mentre secondo altri rappresenta un principio generale dell’ordinamento tributario, colpisce i casi in cui la stessa imposta viene pretesa a fronte del medesimo presupposto (pluriimposizione giuridica).

Tale divieto non è invece volto ad impedire anche la cosiddetta doppia imposizione economica, quei casi in cui a fronte del medesimo presupposto l’ordinamento richiede imposte tra loro diverse (in limiti non espropriativi della capacità contributiva manifestata, pena la violazione dell’articolo 53 della Costituzione), ovvero i casi in cui sia diverso il presupposto, inteso come sostanza economica della vicenda idonea a legittimare la pretesa erariale.

Nel caso in esame la Cassazione ha correttamente ravvisato una doppia imposizione economica e non giuridica, essendo diverso sia il presupposto che i tributi applicabili in capo rispettivamente alla società (utile d’esercizio imponibile Ires) ed ai percettori (compenso ovvero, essendo soci, distribuzione di utile, soggetto ad Irpef).

Su un altro piano, invece, deve essere eventualmente valutato quanto percepito, quale compenso non deliberato, da amministratori che non siano anche soci della società. Ferma l’indeducibilità del compenso in capo alla società, non potendosi configurare il pagamento come un riparto di utili la fattispecie va eventualmente analizzata sotto il profilo dell’arricchimento indebito con conseguente obbligo (totale o parziale, stante il diritto alla liquidazione giudiziale del compenso ex articolo 2233 del Codice civile) di restituzione in capo all’amministratore, dal che conseguirebbe la irrilevanza reddituale della somma indebitamente percepita.

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