Controlli e liti

Condanna alle spese di lite per l’atto annullato dall’ufficio in autotutela

La sentenza 2491/12/2020 della Ctr Lombardia: il giudice non deve limitarsi alla compensazione

di Massimo Romeo

Nei casi di estinzione del giudizio per ipotesi diverse da quelle di definizione delle pendenze tributarie, come nel caso in cui a seguito dell’impugnazione dell’atto l’Ufficio abbia provveduto all’annullamento per un vizio dello stesso, ritirandolo in autotutela, il giudice dovrà pronunciarsi sulla condanna al pagamento alle spese e non dovrà pertanto limitarsi a deciderne la compensazione. Così si pronuncia la Ctr Lombardia con la sentenza 2491/12/2020.

Un contribuente impugnava un avviso relativo ad una dichiarazione di successione con cui l’Ufficio liquidava il pagamento dell’imposta principale di successione. Tralasciando il merito della questione ci si sofferma sulle vicende intra processum che hanno portato i giudici di primo grado a dichiarare la cessata materia del contendere con compensazione delle spese processuali e quelli di secondo grado a riformare tale decisione con condanna di parte pubblica al pagamento delle stesse. In particolare la Ctp così si pronunciava: «esaminati gli atti, tenuto conto delle risultanze istruttorie, (...), ritenuto che sussistano i motivi di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere ex articolo 46 del Dlgs 546/1992 per annullamento in autotutela dell’atto impugnato e di compensazione delle spese».

Il contribuente appellava la sentenza osservando che «stante il contrasto tra le parti sia per le spese di giudizio, sia per l’annullamento dell’atto (che non risulta essere affatto annullato), appare abnorme quanto deciso con la sentenza impugnata, ove per inciso si afferma che vi sarebbe stata una sorta di annullamento dell’ atto in autotutela» ed evidenziando come la sentenza andava riformata in quanto agli atti non esisteva ne era stato depositato/notificato alcun atto di annullamento dell’atto impositivo impugnato. Citava altresì il disposto del secondo comma dell’articolo 92 del Codice di procedura civile il quale dispone che «se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti» e rilevava come, nel caso di specie, la decisione di compensare le spese non era stata motivata. In sostanza egli addebitava all’agenzia delle Entrate di aver omesso l’annullamento dell’avviso di liquidazione nei termini previsti, nonostante lo stesso atto era da considerarsi errato ed evidenziava come tale l’errore dovesse ritenersi suffragato dal fatto che anche dopo la proposizione dell’appello non gli fosse stato notificato alcun annullamento dell’atto impugnato.

I giudici regionali decidono di ribaltare “il verdetto” dei primi giudici con un’interpretazione diversa delle norme del rito processuale tributario in punto spese. La Ctr, richiamando la disciplina dell’autotutela (articolo 4 del Dm 37/1997), evidenzia come l’Ufficio non avesse provveduto a comunicare né al contribuente né all’organo giudiziario di fronte al quale la questione era pendente la notizia dell’annullamento dell’atto impugnato in via di autotutela totale. Pertanto, il collegio legittima l’impugnazione del contribuente e ne condivide le osservazioni nella misura in cui egli aveva affermato che l’atto non era stato annullato dall’Amministrazione finanziaria e che i giudici di prime cure avevano dichiarato con sentenza la cessazione della materia del contendere sul presupposto che l’Ufficio avesse proceduto, nel frattempo, ad annullare l’atto. I giudici decidono, quindi, per la condanna alle spese di giudizio dell’Ufficio in applicazione del disposto di cui al terzo comma dell’articolo 46 del Dlgs 546/1992 che deve interpretarsi nel senso che nei casi di definizione delle pendenze tributarie previste dalla legge si dovrà continuare ad applicare l’articolo 46 del Dlgs 546/1992 (estinzione del giudizio con cessazione della materia del contendere); viceversa, nei casi di estinzione del giudizio per ipotesi diverse da quelle di definizione delle pendenze tributarie, come nel caso di specie ovvero nel caso in cui a seguito dell’impugnazione dell’atto l’Ufficio abbia provveduto all’annullamento , ritirandolo per un vizio dello stesso, allora il giudice dovrà pronunciarsi sulla condanna al pagamento alle spese e non dovrà pertanto limitarsi a deciderne la compensazione. Questa interpretazione, chiosa il Collegio, è stata fornita dalla Cassazione che con la sentenza 21380/2006, dando piena attuazione alla pronuncia della Corte costituzionale n. 274/2005, ha stabilito che «qualora l’Amministrazione finanziaria, a seguito dell’impugnazione dell’atto impositivo, in quanto viziato sul piano formale (...) abbia provveduto alla sua sostituzione con altro atto idoneo a sanare il vizio tempestivamente fatto valere dal contribuente, l’intervenuta cessazione della materia del contendere, dichiarata ai sensi dell’articolo 46 del Dlgs 546/92, non esclude la soccombenza virtuale dell’Amministrazione, onde la motivazione del giudice del merito che legittimamente, sia pure in base al terzo comma di detta disposizione come successivamente riformulato a seguito della parziale declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza sopracitata, abbia condannato l’Ufficio a rifondere le spese sostenute dal contribuente, non è contraddittoria, ma pienamente coerente con la “ratio” della previsione legislativa, in tali sensi resa conforme a Costituzione».

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