Crisi d’impresa, risanamento a rischio maxi-prelievo
Ancora molti dubbi per la detassazione delle sopravvenienze attive nelle procedure di risanamento della crisi di impresa. A due anni dalla entrata in vigore del nuovo articolo 88, comma 4-ter, del Tuir, le imprese, in assenza di istruzioni ufficiali, si interrogano sui diversi aspetti problematici della normativa. Gli interrogativi principali riguardano l’individuazione dei contribuenti interessati dalle nuove regole e le modalità di utilizzo di perdite e interessi passivi a fronte delle sopravvenienze tassabili.
Le sopravvenienze
L’articolo 13 del Dlgs 147/2015, introducendo il nuovo comma 4-ter nell’articolo 88 del Tuir, ha riscritto le regole per la detassazione delle sopravvenienze attive derivanti dallo stralcio di debiti nelle procedure di concordato, negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nei piani attestati di risanamento.
La norma, che ha trovato prima applicazione nell’esercizio 2016, oltre a confermare la integrale irrilevanza fiscale dello stralcio nel concordato fallimentare o preventivo “liquidatorio”, ha previsto una detassazione condizionata per le sopravvenienze attive nei concordati “di risanamento” nonché a seguito di accordi di ristrutturazione omologati (articolo 182-bis, legge fallimentare) o di piani di risanamento attestati, iscritti nel registro delle imprese (articolo 67, lettera d). In questi ultimi tre casi, la detassazione riguarda la sola parte di sopravvenienza che eccede le perdite di periodo e pregresse (comprese quelle trasferite al consolidato fiscale e inutilizzate), senza considerare il limite dell’80%, nonché gli interessi passivi indeducibili (e riportabili a nuovo) e le eccedenze di deduzione Ace (novità della legge 232/2016).
Concordati di risanamento
La norma intende evitare che, proseguendo l’attività, le imprese in crisi possano detassare le sopravvenienze attive da stralcio di debiti, mantenendo al contempo perdite, interessi e Ace da compensare con i redditi futuri. Un primo interrogativo irrisolto riguarda il concetto di concordati di «risanamento». La locuzione, che non trova corrispondenze puntuali nella attuale normativa fallimentare, dovrebbe riferirsi alle procedure disciplinate dall’articolo 186-bis della legge fallimentare (concordati con «continuità aziendale»). Seguendo la ratio del provvedimento, peraltro, la detassazione parziale dovrebbe limitarsi alle sole procedure con continuità diretta, nelle quali, cioè, è la stessa impresa debitrice (che rileva la sopravvenienza attiva) a proseguire l’attività. Se invece la continuità aziendale è, come ammesso da taluna giurisprudenza, indiretta, cioè affidata ad altra impresa (conferitaria o affittuaria dell’azienda) il doppio beneficio fiscale che la norma vuole evitare non può mai realizzarsi (perdite, interessi e eccedenze Ace non vengono trasferiti con l’azienda) e si dovrebbe ritenere che la detassazione possa essere integrale. Andrebbe poi chiarita la sorte degli eventuali accordi di ristrutturazione con finalità liquidatorie (con cessazione dell’attività) per i quali, pure, si dovrebbe ritenere applicabile la norma sui concordati non di risanamento (detassazione integrale).
Il calcolo del reddito
I dubbi più rilevanti riguardano il meccanismo applicativo della norma. La sopravvenienza attiva resta tassabile fino a concorrenza delle perdite (senza considerare il limite dell’80%) e degli interessi riportabili (oltre che dell’Ace), ma non è chiaro se, poi, le perdite e gli interessi possono essere utilizzati integralmente (cioè, rispettivamente, oltre il limite dell’80% del reddito e del 30% del Rol) per compensare l’imponibile così generato.
La lettera della legge (che non interviene sui criteri di deduzione di perdite e interessi) non pare consentire una simile conclusione, creando rilevanti penalizzazioni per i contribuenti. A favore della integrale deduzione si è invece espressa la dottrina (Assonime, circolare 17/2016), basandosi sulla ratio della norma