Professione

Equo compenso per gli avvocati verso il Ddl di bilancio

immagine non disponibile

di Alessandro Galimberti

La legge di Bilancio stringe sull’equo compenso. Lo fa ricalcando in larga parte la bozza “Orlando” uscita dal Consiglio dei ministri e al vaglio, la prossima settimana, della commissione Giustizia della Camera. L’ambito di intervento, pertanto, è ristretto a una sola categoria - gli avvocati - e, sull’altro versante, alle imprese bancarie e assicurative, e più in generale al contraente privato non riconducibile al concetto europeo di micro/piccole/media impresa (raccomandazione 2003/361/Ce).

Rispetto all’idea di equo compenso “erga omnes” - target dell’ipotesi promossa dall’ex ministro Sacconi - l’area coperta dalla norma in gestazione è più ristretta, non solo per la limitazione agli avvocati - unici beneficiari della protezione legislativa - ma anche e soprattutto per l’esclusione della pubblica amministrazione sul versante del contraente forte e del consumatore persona fisica.

Dopo aver richiamato la definizione di equo compenso - «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonchè al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale» - l’articolo della bozza di Bilancio tipizza una serie di clausole considerate vessatorie di default, e cioè fino a prova contraria (prova che può essere raggiunta da un’adeguata e dimostrabile «trattativa specifica»). Gli alert di anomalia sono quindi la possibilità di modificare unilateralmente le condizioni del contratto, di rifiutare la stesura in forma scritta dell’incarico - oltre a quella di chiedere prestazioni aggiuntive a titolo gratuito - l’anticipazione delle spese a carico del legale stesso (e non del cliente, come è normale), ancora la rinuncia al rimborso delle spese vive, il prolungamento dei termini di saldo oltre i 60 giorni dal ricevimento della fattura, la riduzione unilaterale della liquidazione delle spese in favore del legale, e infine la sostituzione dei compensi previsti dalle nuove condizioni di legge quando siano inferiori a quelli delle convenzioni in corso.

La parte realmente innovativa della norma è però nelle sanzioni, che iniziano dalla nullità ex lege delle clausole vessatorie ma prevedono anche una multa da 258 a 2.065 euro a favore della Cassa delle ammende (o in alternativa al Fondo unico della giustizia), oltre al pagamento - beneficiario il bilancio dello Stato - di una somma equivalente al contributo unificato.

Le prime reazioni, ovviamente ufficiose, a quest’ipotesi di equo compenso, non possono che essere di segno opposto. «Soddisfazione» è manifestata dal presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin, «perché questa norma può diventare apripista per un’inversione culturale sul tema, e preparare lo sbarco anche delle altre professioni e degli altri contraenti, penso alla Pa».

Su altri versanti però si fa notare che la scelta dell’Esecutivo rischia l’impasse per questioni di «inerenza» con la materia del bilancio statale - e quindi l’estromissione dell’articolo dedicato - mentre tra i critici c’è chi sottolinea che l’approccio sposta ancora una volta la verifica al momento giudiziale, con due grossi limiti: l’efficacia (il contraente debole difficilmente sfida il committente - molto - forte davanti a un giudice) e l’intasamento nelle cancellerie. Secondo questo approccio,sarebbe meglio individuare dei meccanismi di “cura anticipata” e la fissazione di un benchmark di tariffe che faccia riferimento a quelle individuate per la Pa. A condizione di dimenticare, però, la sentenza del Consiglio di stato del 3 ottobre scorso che legittima gli incarichi professionali a 1 euro.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©