Imposte

Fusioni, per il riporto perdite lo scoglio del test di vitalità

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di Angelo Conte


In caso di fusione societaria, l’articolo 172, comma 7, del Tuir prevede che le perdite fiscali siano soggette ad una tripla condizione per la riportabilità in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione. Vediamo nel dettaglio.

Test di vitalità: l’ammontare dei ricavi e dei proventi dell’attività caratteristica, nonché l’ammontare delle spese di lavoro subordinato e relativi contributi, relativi all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, deve essere superiore al 40% di quello risultante dalla media dei due esercizi anteriori allo stesso.

Limite del patrimonio netto: le perdite delle società partecipanti alla fusione, compresa la società incorporante, sono riportabili nel limite dell’ammontare del patrimonio netto di ciascuna società quale risulta dall’ultimo bilancio ovvero, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di fusione ex articolo 2501-quater del codice civile senza tener conto dei conferimenti/versamenti effettuati nei 24 mesi antecedenti la data di riferimento del bilancio ovvero della situazione patrimoniale

Svalutazioni fiscalmente dedotte: se le azioni o quote della società erano possedute dalla società incorporante o da altra società partecipante alla fusione, la perdita non è ammessa al riporto fino a concorrenza di eventuali svalutazioni di tali azioni o quote effettuate prima della fusione.

Concentrando l’attenzione sulla prima condizione, va rilevato che l’Amministrazione finanziaria ha in più circostanze precisato che, al fine di contrastare il commercio delle cd. bare fiscali, i requisiti di vitalità devono continuare a permanere fino al momento in cui la fusione viene deliberata (in tal senso, si vedano risoluzione 116/E/2006 e 143/E/2008 e la circolare 9/E/2010).

Volendo fare un esempio, ciò significa che nel caso di un contribuente con periodo d’imposta coincidente con l’anno solare interessato da una fusione avente data di efficacia il 30 giugno 2018, l’agenzia delle Entrate, al fine di consentire il riporto delle perdite fiscali, esige il soddisfacimento di un doppio test di vitalità:
■un primo test che confronta i ricavi e il costo del lavoro del 2017 con quelli derivanti dal 40% della media dei periodi d’imposta 2015 e 2016;
■un secondo test che confronta i ricavi e il costo del lavoro del 2018 (ragguagliati ad anno) con quelli derivanti il 40% della media dei periodi d’imposta 2016 e 2017.

In effetti, la necessità di effettuare anche tale secondo test ha incontrato diverse critiche in dottrina. In particolare, secondo l’Associazione italiana dottori commercialisti (norma di comportamento 176), l’interpretazione dell’amministrazione finanziaria non sarebbe condivisibile perché in contrasto con il dato letterale della norma e perché ignora, tra l’altro, l’influenza della diversa durata dell’ultimo esercizio ed il peso dei fattori stagionali, nonché l’effetto dell’eventuale mutato assetto societario sull’andamento aziendale.

Peraltro, anche in giurisprudenza si è aperto uno spiraglio a favore dei contribuenti. La sentenza 6353/2016 della Ctr Lombardia si è infatti espressa ritenendo che l’Agenzia interpreta erroneamente l’articolo 172, comma 7, del Tuir e nessun test di vitalità dovrebbe essere fatto relativamente al periodo interinale. Secondo i giudici milanesi, qualora il test di vitalità non fosse soddisfatto nell’esercizio di efficacia della fusione, l’Amministrazione finanziaria, che volesse disconoscere il riporto delle perdite, dovrebbe contestare un eventuale e specifico comportamento elusivo. Una posizione che, a parere di chi scrive, è maggiormente equilibrata e rispettosa del dato normativo.

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