Contabilità

Fusioni, il riporto delle perdite va oltre il limite patrimoniale

di Enrico Holzmiller

Nel caso di fusione tra società, il riporto delle perdite fiscali pregresse è disciplinato dall’articolo 172 del Tuir, comma 7. Esso ha tre limitazioni, tutte aventi carattere antielusivo, finalizzate a contrastare la fusione di “bare fiscali”:

a) indici “di vitalità”. Tali indicatori hanno la finalità di evitare che vengano riportate perdite fiscali laddove una delle società fuse sia economicamente “inattiva”.

b) limite pari alla svalutazione di partecipazioni. Si tratta di una fattispecie ormai quasi solo teorica, atteso che ormai dalla riforma del 2004 (previgente articolo 123 del Tuir) le svalutazioni di partecipazioni non sono più deducibili fiscalmente. Come precisato dalla norma di Comportamento Aidc n. 160, la disposizione “continua a determinare l’obbligo di monitorare le svalutazioni di partecipazioni fiscalmente dedotte negli esercizi precedenti”.

c)limite del patrimonio netto. Le perdite fiscali sono riportabili nel limite del «patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’articolo 2501-quarter del Codice civile, senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa».

Con riguardo a quest’ultimo limite, particolare attenzione va data allo scomputo dei «conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi».

Una lettura squisitamente formalistica imporrebbe di togliere, dal computo del patrimonio netto, i versamenti “a prescindere” dal motivo per il quale gli stessi sono stati effettuati, indipendentemente dal fatto che la fusione abbia carattere elusivo o meno.

Tuttavia, tale approccio non tiene conto della indiscutibile natura antielusiva della disposizione in commento: applicarla asetticamente, significherebbe snaturare la portata stessa della norma, portando in alcuni casi – come negli esempi di seguito esposti – a situazioni paradossali.

A favore di una applicazione flessibile e “ragionata” di tale limite, lo ricordiamo, vi è la posizione della Corte di giustizia europea: con la causa C-126/10 del 10 novembre 2011 è stato stabilito che non si può limitare il diritto al riporto delle perdite nel momento in cui la fusione non risulti preordinata all’elusione fiscale.

Dello stesso tenore vi sono alcune pronunce di merito, quale la sentenza 24/02/13, emessa dalla Ctp di Reggio Emilia, secondo cui, se in un’operazione di fusione la società incorporante è dotata di vitalità economica, le perdite fiscali di quest’ultima possono essere riportate anche oltre il limite del proprio patrimonio netto contabile. E ciò, indipendentemente da un eventuale interpello preventivo.

A ben vedere, anche la giurisprudenza apparentemente contraria, se correttamente interpretata, lascia spazi per una conferma di tale approccio sostanziale e non meramente formale. La sentenza di Cassazione 26697/2016, pur negando la possibilità di derogare al dettato normativo per i versamenti obbligatori dovuti in base all’articolo 2447 del Codice civile ammette l’esistenza di una “finalità elusiva”, atta a “disincentivare il commercio delle cosiddette bare fiscali”.

A parere dello scrivente, nel caso trattato dalla Cassazione l’attenzione si sarebbe dovuta focalizzare non tanto sulla natura (obbligatoria o meno) della ricapitalizzazione, bensì sulla verifica complessiva dell’operazione. Un esempio può chiarire meglio il concetto. Difatti (come ricordato dalle stesse Entrate nella circolare 9/2010) la decurtazione dal patrimonio netto dei versamenti, effettuati nei 24 mesi precedenti alla fusione, assolve all’esigenza di neutralizzare «i tentativi volti a consentire un pieno, quanto artificioso, recupero delle perdite fiscali». Di conseguenza, nei casi in cui tali tentativi non sussistano, la decurtazione di cui sopra non ha ragion d’essere.

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