Professione

Gli studi professionali restano aperti: prevalgono le indicazioni del Governo

Anche in Lombardia e Piemonte vanno garantiti i servizi essenziali e va evitata la frammentazione delle regole

In attesa di una prognosi chiara e autentica sull’interazione tra ordinanze regionali e decretazione del premier, chiesta direttamente al Viminale dal Governatore lombardo Attilio Fontana, gli studi professionali delle Regioni più restrittive (Lombardia e Piemonte) restano in trincea, vale a dire - fuori di metafora - dentro i propri uffici.

La scelta, di prassi necessitata e urgente, è stata adottata dai rappresentanti di categoria, a cominciare dai commercialisti: «Noi abbiamo dato un’interpretazione ampia dell’ordinanza regionale - ha dichiarato la presidente milanese, Marcella Caradonna - e quindi terremo aperti gli studi, anche perché c’è una serie di scadenze da rispettare, attività che vanno portate avanti e che devono essere svolte in studio». Caradonna ha aggiunto di aver chiesto chiarimenti alla Regione, «per scrupolo e per non incorrere in sanzioni», ma «i bilanci vanno depositati anche se sono stati prorogati, e c’è l’attività di assistenza alle aziende, fondamentale in questa fase».

Sulla stessa linea il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella, secondo cui gli studi professionali continueranno a operare per garantire ai cittadini assistenza sanitaria e assicurare ai contribuenti e alle imprese l’espletamento degli adempimenti tributari, contributivi e previdenziali, durante l’emergenza, in sintonia appunto con il Dpcm del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Ma qual è il rapporto, dal punto di vista costituzionale, tra due fonti dl diritto così peculiari come un Dpcm, appunto, e delle Ordinanze regionali, peraltro su un tema peculiare come quello della sanità (e ancora di più, su misure emergenziali)?

Si impongono due considerazioni, una di carattere generale, l’altra legata alla disciplina emergenziale in vigore, ma entrambe militano nello stesso senso: i professionisti possono continuare lo svolgimento della loro attività. Prevale infatti quanto previsto dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri. In primo luogo, in forza del criterio gerarchico, la normativa governativa primeggia, in caso di contrasto, con quanto previsto da un’ordinanza di un presidente di Regione. E la ragione è ovvia. In caso contrario vi sarebbe una frammentazione a livello regionale che non consentirebbe allo Stato di realizzare il suo mandato costituzionale di assicurare un livello minimo di uniformità nella protezione dei diritti e delle libertà direttamente ed indirettamente coinvolte dall’adozione di misure di contenimento.

Ma vi è, in più, anche una ragione legata alla disciplina emergenziale in vigore. Ne parla il decreto legge 6/2020 - convertito nella legge n.13/20 - che disciplina i canoni con cui il Parlamento identifica organi e modalità di intervento per l’adozione di misure restrittive ed è molto chiaro sul punto.

In particolare, l’articolo 3 specifica che solo «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri» possono intervenire, in caso di estrema necessità urgenza, le fonti ministeriali, regionali e locali rilevanti, compresa ovviamente le ordinanze dei presidenti di regione. È proprio quello successo con l’ordinanza del presidente Fontana che, vista l’estrema necessità ed urgenza dettata dal drastico peggioramento della situazione sanitaria in Lombardia, nelle more dell’adozione del Dpcm, ha previsto la chiusura delle attività professionali. Una volta adottata la fonte governativa, per definizione, la fonte regionale in contrasto si deve ritrarre.

Dunque, con l’ultimo decreto governativo si può ritenere chiuso lo spazio per le iniziative autonome delle regioni, almeno nei settori disciplinati dallo Stato? Non esattamente, perché una regione potrebbe invocare nuove ragioni di estrema necessità e urgenza proprie del suo territorio e intervenire nuovamente con norme più severe.

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