Controlli e liti

I contratti all’estero non escludono la stabile organizzazione in Italia

di Emilio de Santis

La circostanza per la quale i contratti di impresa, compresi quelli inerenti l’acquisto di beni strumentali utilizzati per l’esercizio della medesima, sono stati realizzati all’estero, ove una società ha la sede legale, non esclude, di per sé, l’esistenza di una sua stabile organizzazione in Italia. In effetti nel Commentario del modello di Convenzione dell’Ocse, all’articolo 5 paragrafo 1, punti 2, 4 e 5.1 vengono forniti alcuni presupposti per l’identificazione della stessa e cioè:
a)l’esistenza di una sede d’affari: in tale locuzione sono compresi tutti i locali, le infrastrutture e simili, utilizzati per l’esercizio dell’attività industriale o commerciale della società estera, a prescindere dal fatto che questi siano utilizzati esclusivamente a tale fine ed essendo in ogni caso irrilevante il titolo giuridico legittimante la disponibilità della sede di affari, che potrebbero essere anche due;
b)la circostanza che tale sede sia caratterizzata dai caratteri della fissità e della permanenza; e il fatto che l’impresa non residente svolga, in tutto o in parte, la propria attività per mezzo di tale sede fissa d’affari.

Lo afferma la sentenza 4578/2017 della Cassazione , nell’accogliere il ricorso dell’agenzia delle Entrate avverso la decisione della Ctr Liguria del 21 dicembre 2010, favorevole al contribuente, come quella pronunciata dai giudici di prime cure. Il contenzioso nasceva da un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza relativo al 2003, con il quale veniva contestata ad una società – con sede legale in Francia – l’esistenza di una sua stabile organizzazione in Italia. Risolto prima un motivo del controricorso del contribuente – che lamentava l’esistenza di una pronuncia passata in giudicato, ritenuta però dalla Suprema corte afferente ad un altro soggetto – i giudici di legittimità si sono soffermati sulla erroneità della pronuncia della Ctr, che aveva escluso, solo per tanto, «l’esistenza della stabile organizzazione della società ricorrente in Italia essenzialmente sulla base del seguente rilievo: i contratti con i clienti risultano essere conclusi nello stato di residenza della società. I beni strumentali di cui è proprietaria la società sono stati acquistati e immatricolati in Francia».
L’articolo 5 della Convenzione – pressoché integralmente recepito dall’articolo 162 del Tuir, Dpr 917/1986, con ciò rendendo indifferente l’applicazione della disposizione nazionale o transnazionale – va quindi assunto alla luce dei riscontri effettuati dall’Amministrazione finanziaria, puntualmente dedotti nell’atto di appello delle Entrate. In esso viene riportato che:
a)la società aveva come socio di larghissima maggioranza e amministratore un contribuente italiano;
b)la medesima risultava proprietaria di mezzi noleggiati ad altra società, di cui lo stesso contribuente era socio e dirigente;
c)l’attività in Italia era svolta in un locale avuto in locazione da una società con amministratore il medesimo soggetto;
d)documentazione riguardante la società estera era stata rinvenuta in detto locale.

Queste circostanze hanno fatto ritenere alla Cassazione che fosse da escludere «l’attività svolta in Italia dalla società a mezzo del suo legale rappresentante a una attività meramente preparatoria e ausiliaria rispetto a quella svolta all’estero», come invece sostenuto nel controricorso.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©