Il CommentoDiritto

Imposta di donazione, lecito distinguere fra parenti e affini

La sentenza della Consulta 54/2020 del 13 marzo

di Enrico De Mita

La discrezionalità del legislatore, quando tratta diversamente situazioni disomogenee, non incorre in violazione del principio di uguaglianza. In particolare, non esiste un principio di «necessaria parificazione» tra i parenti e gli affini; talché è giustificata, ai fini dell’imposizione, l’eventuale discriminazione soggettiva tra i due.

La Consulta, con la sentenza n. 54/2020, lo scorso 13 marzo ha dichiarato, in parte inammissibile e in parte infondata, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 2, della legge n. 383/2001 nella parte in cui non include gli affini nei soggetti esclusi dal pagamento dell’imposta prevista per donazioni o altra liberalità tra vivi, che la Ctr del Molise aveva posto con ordinanza dell’11 marzo 2019, in riferimento agli articoli 2, 3, 29, e 31 della Costituzione (cfr. GURI, n. 36/2019 – 1^ Serie Speciale).

La violazione del principio di eguaglianza risiederebbe nel diverso trattamento tributario riservato a posizioni, in tesi, omogenee: secondo il remittente gli affini sarebbero ingiustificatamente trattati in modo diverso dai parenti, esclusi dalla tassazione in relazione alla medesima fattispecie, nonostante l’omogeneità tra le due categorie di familiari.

La Corte costituzione, ritenuta l’ordinanza per il resto inammissibile, ha escluso una lesione del principio di eguaglianza stante la disomogeneità dei termini posti a confronto (236/2017).

Premette che la norma censurata si inserisce all’interno di un intervento normativo isolato: il comma 1 dell’articolo 13 della legge n. 383 /2001 ha disposto che l’imposta sulle successioni e donazioni «è soppressa» e il comma 2 del medesimo articolo 13 ha limitato l’imposizione ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altre liberalità tra vivi solo ove siano disposti a favore dei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado, degli affini e degli estranei.

La successiva abrogazione dell’articolo 13 avrebbe poi riportato sostanzialmente nel nostro ordinamento l’imposta di successione (Dl n. 262/06, convertito in legge n. 286/06).

La questione non è apparsa fondata perché, ad avviso della Corte, il legislatore ha sempre strutturato l’imposizione in modo graduato in rapporto alla prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario. Il censurato comma 2 dell’articolo 13 della legge n. 383/2001 ha individuato nei parenti in linea collaterale oltre il quarto grado, negli affini e negli estranei i soggetti passivi rispetto ai quali i trasferimenti di beni e diritti per donazioni e altre liberalità tra vivi, eccedenti i 350 milioni di lire, devono considerarsi imponibili nella stessa misura stabilita per gli atti traslativi a titolo oneroso.

La conclusione della Corte è, nella sua linearità di espressione, fin troppo tranciante rinviando puramente alla discrezionalità del legislatore tributario, che può selezionare i soggetti passivi d’imposta (288/2019; 269/2017) in ragione della prossimità familiare tra il disponente e il beneficiario, anche - e in ciò la Corte si “scopre” – nell’esigenza di limitare l’impatto finanziario della riforma del 2001.

Rinvenire argomenti di legittimità costituzionale dai lavori preparatori appartiene più a un’analisi dottrinale – pur pregiata – che, in senso proprio, al vaglio di legittimità costituzionale, semmai degli stessi ragionamenti del legislatore che hanno corredato la norma.

La Corte rifiuta la presunta vis expansiva dell’esclusione d’imposta stante la ratio della prossimità familiare, ribadendo una sostanziale tassatività della esclusione rimessa alla discrezionalità del legislatore, che può trattare situazioni disomogenee in modo diverso.

La conclusione è che «non risulta, dunque, superato il confine della non manifesta irragionevolezza, nel cui àmbito soltanto può legittimamente esercitarsi la discrezionalità del legislatore».

Ora si auspica che il limite ribadito della non manifesta irragionevolezza possa, nei più giudici più illuminati, tradursi, in una finale e cruda affermazione di manifesta ragionevolezza.