Imposte

L’assegno unico per i figli a carico discrimina lavoratori Ue e rifugiati

l regolamento 883/04 impone l’abolizione delle clausole di residenza

di Enrico Traversa

In tema di prestazioni familiari, l’articolo 3.d) del recente schema di decreto legislativo prevede fra i «requisiti soggettivi del richiedente» dell’assegno unico per figli a carico, la residenza in Italia «da almeno due anni anche non continuativi», a meno che il genitore «sia titolare di un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato di durata almeno semestrale». La condizione si aggiunge a un requisito di cittadinanza, cioè l’esigenza che il richiedente «sia cittadino italiano, o di uno Stato membro della Ue, ovvero sia cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo o sia titolare di permesso unico di lavoro autorizzato a svolgere un’attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi» (stesso articolo 3).

La condizione di residenza biennale in Italia appare in radicale contrasto sia con varie norme Ue, sia con la giurisprudenza della Corte di giustizia.

Va in primo luogo ricordato che la Corte Ue ha costantemente equiparato una discriminazione indiretta fondata sulla residenza a una discriminazione diretta fondata sulla nazionalità, con questa chiara motivazione: «Una normativa nazionale la quale preveda una distinzione basata sulla residenza rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri. Infatti, il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (sentenza C-224/97, punto 14).

In secondo luogo, essendo concesso sulla base di una situazione familiare definita dalla legge e al di fuori di qualsiasi valutazione discrezionale delle condizioni del richiedente, l’assegno unico rientra certamente fra le “prestazioni familiari” di cui all’articolo 3.1.j) del regolamento Ue 883/04 «relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale».

Tale regolamento si applica a tutti i cittadini di uno Stato membro Ue titolari di una «carta (e non “permesso”) di soggiorno» in Italia alla quale questi hanno diritto in base all’articolo 7 della direttiva 2004/38 sulla libera circolazione dei cittadini Ue e dei loro familiari: lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, soggetti non attivi e studenti. L’articolo 4 del regolamento 883/04 impone agli Stati membri di concedere ai cittadini degli altri Stati Ue le prestazioni sociali previste dalla propria legislazione «alle stesse condizioni dei propri cittadini» e l’articolo 7 impone espressamente l’ «abolizione delle clausole di residenza».

Ne consegue che la condizione di residenza da almeno due anni in Italia non potrà essere opposta: ai lavoratori dipendenti Ue con un contratto di lavoro di durata inferiore a sei mesi, ai lavoratori autonomi Ue, ai pensionati e agli studenti Ue. Va rilevato anche che, essendo la parità di trattamento prevista dall’articolo 4 del regolamento Ue sulla sicurezza sociale, vale a dire da un atto legislativo Ue per definizione direttamente applicabile e prevalente su qualsiasi norma legislativa di diritto italiano, sia i giudici del lavoro, sia i funzionari dell’Inps (sentenza Ue C-103/88) avranno l’obbligo di disapplicare d’ufficio l’articolo 3.d) del Dlgs sull’assegno unico, riconoscendo il relativo diritto a tutti i cittadini Ue fin dal loro primo giorno di residenza in Italia.

La condizione di residenza da almeno due anni discrimina, inoltre, gli emigrati italiani che rientrano in Italia dopo un periodo di lavoro in un altro Stato membro.

Fortunatamente (per loro) questi returning workers sono stati equiparati dalla Corte di giustizia ai lavoratori di altri Stati membri sotto il profilo dei diritti invocabili nei confronti dello Stato membro d’origine (C- 370/90 e C-90/97) e pertanto anch’essi avranno diritto all’assegno unico per figli a carico fin dal primo giorno del loro rientro in Italia.

Il caso dei rifugiati

Il Dlgs in attesa del parere delle Camere ha dimenticato i cittadini di paesi extra-Ue titolari dello status di rifugiato ex direttiva 2011/95 ai quali si applica, per disposto del suo articolo 2, il regolamento Ue 883/04 sulla sicurezza sociale. Questi cittadini extra-Ue ai quali lo Stato italiano ha concesso la protezione internazionale potranno chiedere la disapplicazione del requisito della residenza biennale in Italia, sia sulla base dell’articolo 4 (parità di trattamento) del regolamento 883/04 sia sulla base dell’articolo 29 della direttiva 2011/95, che impone agli Stati Ue di assicurare ai beneficiari dello status di rifugiati gli stessi diritti a prestazioni sociali accordati ai propri cittadini, «qualunque sia la durata del titolo di soggiorno di cui essi (rifugiati) dispongono» (sentenza C-713/17, pagina 28).

L’articolo 3.d) del Dlgs sull’assegno unico entra “in rotta di collisione” anche con la direttiva Ue 2011/98 sul “permesso unico” che ogni Stato membro può rilasciare a cittadini extracomunitari, sulla base dell’articolo 3.b) e c), sia «a fini lavorativi», che «a fini diversi dall’attività lavorativa» (per esempio, famiglia o di “attesa occupazione”).

In forza dell’articolo 12.1.e) di tale direttiva, i cittadini extracomunitari titolari di un «permesso unico» hanno diritto alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato Ue di accoglienza in «tutti i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento 883/2004» e pertanto anche all’assegno unico.

Ne consegue che una condizione discriminatoria quale quella della residenza in Italia per almeno due anni, risulta incompatibile con la direttiva “permesso unico” come confermato dalla Corte di giustizia in una sentenza su rinvio della Corte costituzionale italiana (C-350/120). Avranno diritto all’assegno unico per figli a carico anche i titolari extracomunitari di permesso unico diversi dai dipendenti, quali i lavoratori autonomi e i titolari di permesso «per fini diversi dall’attività lavorativa».

Se dunque l’articolo 3.d) dello schema di Dlgs non verrà soppresso dal Governo in sede di adozione definitiva del provvedimento, si prospetta per l’Inps un secondo defatigante contenzioso davanti ai tribunali di mezza Italia (il primo per la condizione di residenza per dieci anni in Italia imposta dall’articolo 2 del Dl 4/19 per la concessione del reddito di cittadinanza) e una denuncia dello Stato italiano alla Commissione per violazione di quattro disposizioni di diritto Ue. Qualora poi una questione pregiudiziale interpretativa fosse rinviata da un giudice italiano alla Corte di giustizia, l’esito del processo sarebbe scontato.

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