L’Europa rincorre la riforma di Trump
Ora che il dado è stato lanciato sul tavolo verde della fiscalità internazionale, all’Europa non resta che correre. La riforma annunciata da Donald Trump dopo 18 mesi di mezze e contraddette anticipazioni (a partire dai Blue print repubblicani dell’estate 2016) produrrà un effetto domino, di cui oggi è chiaro solo il beneficiario: gli Usa stessi. Per tutti gli altri, a cominciare appunto dall’Europa, i rapporti fiscali con il gigante a stelle e strisce sembrano entrare in un cono d’ombra, quantomeno per le ripercussioni delle attività europee basate tra la East e la West Coast, e di quelle statunitensi basate nella Ue. Unica relativa certezza, il saldo di benefici fiscali per le corporation e, almeno a breve termine, anche per l’erario, avrà sempre e solo la bandiera a stelle e strisce.
In attesa di vedere l’esito del «più grande regalo di Natale agli americani» (Trump dixit), si può già intravedere come, ancora una volta, gli Usa dettano al mondo condizioni praticamente unilaterali - come già avvenuto dalla guerra al nero internazionale post 2008 fino agli accordi Fatca di “acquisizione” di info fiscali ratificati da mezza Europa, Italia compresa- pensando principalmente alla loro politica interna.
L’abbattimento della corporate tax federale al 20% (dal 35 attuale) non è l’unico aiuto alla competitività fiscale, basti pensare alla deducibilità immediata del costo di beni strumentali per i prossimi 5 anni - in luogo degli ammortamenti - e la possibilità di riportare a nuovo le perdite fiscali senza limitazioni di tempo. Ancora, la riforma trumpiana garantisce l’esenzione al 100% dei dividendi e delle plusvalenze sulle cessioni di partecipazioni, i cui effetti sono - con tutta evidenza - la disponibilità di liquidità intatta da prelievo fiscale. Non bastasse, il transfer pricing prende una piega vagamente nazionalista, gravando con il 20% (excise tax) i pagamenti effettuati a beneficio delle consociate estere (di società Usa) per l’acquisto di beni e servizi.
In attesa di vedere come tutto ciò sia compatibile con i trattati fiscali che comunque gli Usa hanno firmato con decine di paesi - molti dei quali proprio nella Ue - resta da capire come l’Europa reagirà a questa tax policy così aggressiva, almeno se vista da questa parte dell’Oceano. E purtroppo ancora una volta la cronaca preannuncia iniziative spot guidate dai singoli governi, senza un minimo di programmazione unitaria. In Francia, per esempio, il premier Emmanuel Macron la scorsa settimana ha preannunciato un programma di riforma fiscale che dovrebbe portare nel breve termine (2020) a un abbassamento del 5,33 % della tassa sui redditi delle società, punto di arrivo 28 punti percentuali. Anche se il movente, per Parigi, era e resta la Brexit, è chiaro che ora il focus si sposterà anche sull’altro competitor d’oltre Oceano. Lo stesso si può dire a proposito delle iniziative dei Paesi Bassi, dove il premier Mark Rutte ha promesso un taglio del corporate tax rate al 21% (dal 25) entro il 2021, con un occhio anche alla tassazione delle persone fisiche (esattamente come fa Trump) scendendo sotto la quota simbolica del 50% (passerà al 49,5% dal 52 attuale). In Italia i recenti interventi hanno ridotto il tax rate nominale per Srl e Spa, anche se si registra il depotenziamento degli incentivi alla ricapitalizzazione. Tutto bene? Forse no, considerato che ancora una volta l’Europa dribbla il problema della competitività senza risolvere la sua enorme contraddizione: la mancanza di una politica fiscale unitaria, ogni paese ha aliquote proprie e regimi fiscali incomunicanti. E quel che è peggio, la storia insegna, è che il vero obiettivo di molti governi Ue continua ad essere il dumping fiscale proprio nei confronti dei 27. Un assist micidiale, oggi, per il grande fratello Usa.