L’inagibilità dell’immobile non supera il regime delle società non operative
Non è una giustificazione sufficiente a superare la disciplina antielusiva delle società non operative il fatto che l’immobile di proprietà della società si trovi in uno stato di inagibilità e di abbandono. Lo ha stabilito la Cassazione con l’ ordinanza 27352/2019 .
La disciplina delle società non operative si basa, in base all’articolo 30 della legge 724/1994, sul «test di operatività», il quale si sostanzia nel confronto tra i ricavi minimi presunti, attraverso l’applicazione di determinate percentuali di redditività ai beni aziendali, ed i ricavi effettivi: se il primo termine eccede il secondo la società si considera non operativa; in presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi presunti, tuttavia, la società può presentare istanza di interpello disapplicativo all’Amministrazione finanziaria.
Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la disciplina antielusiva prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera non operativa se, appunto, non supera il «test di operatività», senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci. Ma la società può far valere situazioni oggettive di carattere straordinario che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito: impossibilità che deve essere intesa non in termini assoluti, quanto piuttosto in termini economici, avendo riguardo alle effettive condizioni del mercato (ex pluris, Cassazione 9852 e 16204 del 2018, 21358/2015).
Per quanto concerne le società immobiliari, particolarmente soggette alla disciplina di cui trattasi, l’Amministrazione finanziaria, con la circolare 5/2007 (paragrafo 4.5), aveva precisato che le «oggettive situazioni» idonee a disapplicare la disciplina possono verificarsi, tra l’altro, per la dimostrata impossibilità di praticare canoni di locazione sufficienti a superare il «test di operatività» o a conseguire un reddito effettivo superiore a quello minimo presunto, situazione che si verifica, ad esempio, nei casi in cui i canoni dichiarati siano almeno pari a quelli di mercato, determinati in base all’articolo 9 del Tuir (è possibile fare riferimento alle quotazioni dell’Omi: confronta circolare 25/2007, paragrafo 8).
Alcuni giudici tributari, invece, qualche mese fa avevano già stabilito che il mero protrarsi per molti anni dell’inagibilità di un immobile non può configurarsi come circostanza oggettiva, che giustifica la disapplicazione della normativa antielusiva delle società non operative, in mancanza di prove puntuali e documentate che comprovino l’impossibilità di conseguire dei ricavi mediante la locazione di tale immobile (Ctr Milano, sentenza 276/15/2019).
Tale posizione sembra confermata anche dalla Cassazione, con la sentenza qui commentata, che, nel bocciare la decisione dei giudici di merito, i quali si erano limitati a ritenere superata la disciplina in oggetto in forza dell’accertata inagibilità e stato di abbandono dell’immobile, ha stabilito che sarebbe stato invece necessario che la contribuente avesse dimostrato, per ritenere integrata la prova contraria su di essa gravante, che era stato invano tentato il recupero dell’immobile.
Insomma, le società immobiliari che falliscono il test di operatività non possono limitarsi a evidenziare le caratteristiche di scarsa o nulla redditività dei beni immobili, senza in alcun modo argomentare in ordine alla causa, come nel caso di mancato avvio dell’attività imprenditoriale prevista presso l’immobile (Cassazione 7034/2018).
Cassazione, ordinanza 27352/2019




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