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La direttiva Atad entra in collisione con l’armonizzazione europea

di Enrico Traversa

Il Consiglio dei ministri della Finanze dell’Ue ha adottato nel 2016 la direttiva 2016/1164 «recante norme contro le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul mercato interno», meglio conosciuta come direttiva Atad (“anti-avoidance directive”) trasposta in diritto italiano con il Dlgs 142/18. Il punto 4 della motivazione sintetizza bene il contenuto degli articoli della direttiva: limiti alla deducibilità degli interessi, imposizione in uscita, norma generale anti-abuso, norme sulle società controllate estere e norme per contrastare i “disallineamenti da ibridi” (casi di doppia deduzione di uno stesso pagamento).

La “base giuridica” della direttiva Atad è l’articolo 115 del Trattato Ue in base al quale il Consiglio dei ministri delle Finanze «stabilisce direttive volte al ravvicinamento delle disposizioni legislative degli Stati membri che abbiano un’incidenza diretta sul funzionamento del mercato interno».

Questo articolo 115 è la base giuridica di tutte le direttive Ue in materia di fiscalità diretta ed è redatto in termini molto simili agli articolo 113 e 114 del Trattato Ue, basi giuridiche delle direttive in materia rispettivamente di fiscalità indiretta e di normative non fiscali. Ne consegue che la vasta giurisprudenza della Corte di giustizia avente a oggetto l’articolo 114 può essere senz’altro utilizzata per l’interpretazione degli articoli 113 e 115, data la rarità di pronunce della Corte su queste due basi giuridiche “fiscali”.

Sulla base dell’articolo 113 il Consiglio dei ministri Ue ha proceduto ad un’ampia armonizzazione dell’imposte indirette: Iva, accise e imposta sui conferimenti in società di capitali. Sulla base dell’articolo 115 lo stesso Consiglio ha introdotto, al fine di evitare doppie imposizioni all’interno di gruppi societari, dei regimi armonizzati di esenzione per operazioni fra società collegate con sede in Stati membri diversi: direttiva 2009/133 “fusioni”, direttiva 2011/96 “dividendi” e direttiva 2003/49 “interessi”.

La direttiva Atad rappresenta un radicale cambiamento di obiettivi rispetto alle precedenti direttive di armonizzazione “sostanziale” delle legislazioni fiscali nazionali.

La sua finalità espressa è quella di stabilire un “livello minimo di protezione” delle “basi imponibili nazionali dell’imposta delle società” (articolo 3) che la direttiva non armonizza minimamente, finalità confermata dal punto 3 della motivazione ove si parla di “rafforzare il livello medio di protezione contro la pianificazione fiscale aggressiva” e di “coordinare le risposte degli Stati membri nell’attuare i risultati della 15 azioni dell’Ocse intese a contrastare il Beps” vale a dire l’erosione delle basi imponibili nazionali.

Quello che la direttiva Atad armonizza sono quindi soltanto quattro norme antielusione specifiche (articolo 4, 5, 7 e 9) e una norma antielusione generale (articolo 6). Nella sua giurisprudenza la Corte di giustizia ha costantemente affermato che una semplice disparità tre le legislazioni nazionali non è sufficiente a giustificare il ricorso all’articolo 114 (e quindi anche 115) del Trattato.

Tale articolo può essere utilizzato come base giuridica solo quando risulti “obiettivamente ed effettivamente” dalle disposizioni e dalla motivazione che una direttiva Ue “ha come fine il miglioramento della condizioni di funzionamento del mercato interno” (sentenza C-270/12, punto 113) e quindi in concreto per la Corte «occorre verificare se la direttiva contribuisce effettivamente all’eliminazione di ostacoli alla libera circolazione delle merci e alla libera prestazione dei servizi» (C-376/98, p. 95).

In che modo allora la direttiva Atad «contribuisce effettivamente» all’eliminazione di ostacoli all’attività delle società con sede e/o redditi imponibili nell’Ue?

La motivazione della direttiva ai punti 2-5 cerca disperatamente di dimostrare che un’azione coordinata degli Stati membri contro le pratiche di elusione fiscale avrebbe di per sé l’effetto di «impedire una frammentazione del mercato e porre fine alle distorsioni del mercato attualmente esistenti». Al che si può facilmente controbattere che le distorsioni del mercato esistono proprio a causa della radicale diversità delle legislazioni nazionali in materia di imposta sulle società, legislazioni che la direttiva Atad non tenta minimamente di armonizzare nella sostanza. Più seducente appare a prima vista l’altro argomento della motivazione secondo il quale le norme nazionali anti-elusione «che seguono una linea comune in tutta l’Unione fornirebbero ai contribuenti la certezza giuridica della compatibilità di dette misure con il diritto dell’Unione». Tale affermazione si espone a una duplice contestazione.

In primo luogo i parametri ultimi per valutare la legittimità di una norma nazionale anti-elusione volta a proteggere un’imposta non armonizzata sono gli articoli del Trattato Ue sulle quattro libertà di circolazione (merci, servizi, capitali e società), dato che le norme fiscali anti-elusione, nazionali ed europee, costituiscono altrettante restrizioni alla libera circolazione di servizi e capitali. L’interpretazione di quegli articoli sulle libertà di circolazione spetta con “certezza giuridica” esclusivamente alla Corte di giustizia la quale potrebbe benissimo disapplicare (articolo 277) la direttiva Atad per violazione del Trattato invocata da una società ricorrente. In secondo luogo, quell’affermazione confonde deliberatamente il problema della conformità al Trattato Ue di una norma anti-elusione nazionale, con il problema dell’esistenza di una competenza legislativa dell’Unione ex articolo 115 per adottare una direttiva che non armonizza nulla della base imponibile dell’imposta sulle società e che si limita a imporre agli Stati membri l’introduzione di cinque norme anti-elusione “standardizzate”.

Quest’ultima constatazione ci porta al cuore del problema istituzionale che pone la direttiva Atad: “è lecito o non è lecito” per il legislatore della Ue imporre agli Stati membri l’introduzione di norme anti-elusione a protezione di legislazioni fiscali nazionali e in assenza di una normativa europea di armonizzazione? La risposta negativa si deduce da tre precedenti legislativi e da tre giurisprudenziali.

Le tre direttive sopra ricordate di armonizzazione delle esenzioni fiscali per operazioni fra società collegate di Stati membri diversi contengono tutte una norma finale anti-abuso che presuppone e “chiude” la serie di norme di armonizzazione sostanziale al fine dichiarato di «evitare l’uso improprio di tale direttiva» (p. 5 motivazioni direttiva 2015/121 che ha introdotto la norma anti-abuso nella direttiva 2011/96 “dividendi”). Ancora più decisiva risulta tuttavia la linea coerente della Corte la quale ha ammesso la legittimità, rispetto alla base giuridica “articoli 114/115”, di norme anti-abuso contenute in una direttiva, ma soltanto al fine di evitare l’elusione delle norme di armonizzazione contenute in quella stessa direttiva e mai al fine di tutelare l’applicazione di legislazioni nazionali non armonizzate (sentenze “tabacco” C- 376/98, p. 100, C-491/01, p. 82 e C-547/14, p. 131).