Imposte

La «Ico» può essere soggetta al Codice del consumo

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di Stefano Capaccioli

Le Initial Coin Offering (Ico) stanno innovando il panorama del venture capital, proponendo una via alternativo per cercare e raccogliere capitali, ricalcando gli schemi del crowdfunding con l’utilizzo di una rappresentazione digitale di valore nella forma di coin (moneta) o token (gettone). Le forme che possono assumere sono variegate e le classificazioni finora proposte sono approssimative, anche se tentano di delineare tassonomie utili all’opera dell’interprete.

Le Ico scontano un’ambiguità di fondo, perché in astratto possono soddisfare sia bisogni di consumo sia di investimento. La prima classificazione che può essere svolta consiste nel dividere tra:
• Altcoin, la cui funzione si esaurisce in sé stessa, quali mezzi di scambio o di pagamento;
coin di Decentralized Autonomous Organization (Dao), il cui funzionamento si basa esclusivamente sul codice;
• AppCoin, la cui funzione è variegata.

Nel primo caso la Corte di giustizia Ue, nella sentenza C-264/14, ne ha stabilito l’esenzione Iva e varie autorità europee hanno espresso l’inapplicabilità delle principali normative sulla protezione degli investitori, mentre è discutibile l’applicabilità del Codice del consumo.

Nel secondo caso, anche se mai affrontato a livello europeo, è abbastanza scontato che la promozione di tali coin possa ricadere nell’ambito di protezione degli investitori, dato che il modello del Dao non è totalmente decentralizzato. Anzi, l’unico esempio finora conosciuto (TheDAO) ha dimostrato la presenza di un gruppo di controllo, sottolineato peraltro da parte della Sec il 25 luglio 2017.

Le AppCoin, infine, pongono numerose questioni, dato che possono assumere diverse configurazioni:
token di utilità, che sono quelli che consentono di accedere a una piattaforma o di utilizzare un servizio digitale;
token di investimento, rappresentativi di valori patrimoniali (un credito o un diritto societario);
token di partecipazione, rappresentativi di partecipazioni ai ricavi o al margine;
token senza alcun valore, quali beni collezionabili digitali.

Il panorama diventa complesso con le regole poste a protezione del consumatore/investitore, da valutare congiuntamente alla normativa Iva.

L’eterogeneità dei token impone di chiedersi se l’utilizzo o la cessione di un token di utilità, di investimento o di collezionismo digitale integri o meno il concetto di servizio digitale di cui al Regolamento Ue 282/2011, con la conseguente necessità di applicazione dell’Iva nel Paese del cliente/consumatore finale, a prescindere dal Paese in cui il fornitore è stabilito (Paese Ue o extra-Ue).

La promozione di alcune Ico, per come proposte, può integrare la definizione di prodotto finanziario di cui al Tuf, con il conseguente obbligo di approvazione preventiva del prospetto informativo.

In molti casi il Codice del consumo, nella sezione di protezione dei consumatori per la vendita a distanza dei servizi finanziari, può rendersi applicabile (come del resto avvenuto con la sentenza 954/2017 del Tribunale di Verona).

L’analisi dovrà essere svolta a livello di ogni singola Ico, con attenzione alla prevalenza della sostanza sulla forma e valutando l’ambito territoriale di applicazione di tali normative.

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