La partita Iva cessata non limita la detrazione
Non può essere negata la detrazione dell’Iva solo per il fatto che il fornitore del servizio è una partita Iva inattiva, senza consentire al soggetto passivo destinatario della fattura la possibilità di provare l’assenza di evasione e la perdita di gettito fiscale.
È questo il contenuto della sentenza depositata ieri della Corte Ue (causa C-101/16) su un caso di diniego del diritto alla detrazione dell’Iva esposta in una fattura emessa da un contribuente dichiarato «inattivo» dall’amministrazione. Nello specifico detta dichiarazione di inattività, secondo il diritto rumeno, era resa pubblica e accessibile sul web a qualsiasi soggetto passivo nazionale, ma non era stata comunicata alla società committente, che aveva detratto in buona fede l’Iva versata al prestatore a titolo di rivalsa. Difficile il ruolo dei giudici Ue in questo caso, in quanto si sono trovati a dover “scegliere” secondo diritto tra due pilastri del sistema Iva: il principio fondamentale del diritto alla detrazione da un lato, e dall’altro la lotta all’evasione fiscale. Non trascurando l’importanza di quest’ultima, non si può fare a meno di rimarcare la centralità della detrazione nel meccanismo di funzionamento dell’imposta. In quanto mira a sgravare l’imprenditore dall’onere dell’Iva dovuta e pagata nell’ambito delle sue attività economiche, esso costituisce la garanzia del rispetto della neutralità dell’imposizione fiscale. Pertanto, in linea di principio, non può subire limitazioni. Seppure subordinata al rispetto di requisiti tanto sostanziali quanto formali, questi ultimi, se disattesi, non possono avere l’effetto di impedire la detrazione, eccetto il caso in cui la loro inosservanza pregiudichi la prova certa del soddisfacimenti anche dei requisiti sostanziali.
La necessità di combattere l’evasione Iva legittima il legislatore di uno Stato a istituire dei meccanismi di prevenzione, tra cui trova posto a pieno diritto la dichiarazione di chiusura delle partite Iva inattive, obbligo che nel nostro ordinamento è disciplinato ai sensi dell’articolo 35, comma 15-quinquies, Dpr 633/1972. Tale norma attribuisce all’agenzia delle Entrate «sulla base dei dati e degli elementi in possesso» di chiudere le partite Iva dei soggetti che risultano non aver esercitato, nelle tre annualità precedenti, attività d’impresa. Al riguardo è significativo il fatto che la Corte abbia chiarito che l’amministrazione non può imporre a un soggetto passivo di compiere controlli complessi e approfonditi riguardo al suo fornitore, tra cui – continua la Corte – non rientra tuttavia, per la sua semplicità, la verifica su internet dell’esistenza della partita Iva del proprio partner commerciale.
Ciò che conta è che la misura non vada oltre il necessario per conseguire l’obiettivo perseguito. L’omessa presentazione della dichiarazione non è sinonimo stesso di evasione. Di conseguenza, contrasta con la direttiva Iva una norma che nega a priori il diritto alla detrazione al soggetto passivo, non permettendogli di dimostrare che la transazione conclusa con l’operatore inattivo sia conforme al diritto Ue, che non vi sia stata evasione né perdita di gettito fiscale.
In ipotesi specifiche, il contribuente potrebbe accorgersi di aver detratto impropriamente l’Iva (in quanto relativa a fattura emessa da una partita Iva cessata) attraverso lo “spesometro”. Il problema non sarebbe tanto, in questi casi, quello di un’errata comunicazione dati Iva quanto l’aver indebitamente detratto l’imposta. La soluzione prudente rimane quella di correggere l’errore attraverso l’istituto del ravvedimento e lo storno della fattura.