Il CommentoImposte

La vera sfida sarà risolvere i nodi tecnici dell’imposta

di Alessandro Galimberti

I segnali positivi in arrivo da Parigi - dove la corsa contro il calendario per chiudere un cantiere fiscale aperto da troppo tempo (sei anni) è sempre più percettibile - non bastano a illuminare gli angoli di un accordo molto ambizioso, di portata storica e comunque ancora di livello (solo) politico.

Nonostante la deadline di fine 2021 per la presentazione di un progetto di Global minimum tax appaia ormai a portata di mano - e gli annunci di ieri servono sostanzialmente a lanciare questo messaggio - i problemi tecnici e cioè operativi dell’imposta mondiale armonizzata sulle multinazionali non sono ancora risolti. Di più: sono di difficile risoluzione, nonostante l’impegno che tutti i 136 Paesi firmatari stanno mettendo a disposizione dell’enorme tavolo contrattuale (all’appello ne mancano 4 tutto sommato marginali, ma rumours raccontano anche di fibrillazioni dell’India, non esattamente un’economia di secondo piano).

Che il 2023 come anno di avvio della riscossione della Global minimum tax, tappa rivelata ieri per la prima volta, sia un traguardo troppo vicino è stato detto apertis verbis dal ministro delle Finanze svizzero, che in uno statement sin troppo chiaro per gli standard diplomatici, «esige che nell’attuazione (della tassa, ndr) si tenga conto degli interessi di economie piccole e robuste e che sia garantita la certezza del diritto per le imprese interessate». Parole ufficiali che dal cuore dell’Europa finanziaria (e fiscale) affondano nel centro del problema: la certezza delle regole da applicare worldwide per il calcolo della base imponibile, un parametro di riferimento in grado sia di valorizzare la Gmt ma soprattutto, viceversa, di sgonfiarla ai minimi termini. La stessa preoccupazione è stata manifestata dalla Polonia che, ribadendo l’impegno a trattare, ha ricordato le sue condizioni: «No all’aumento della tassazione delle società straniere che investono e svolgono una reale attività economica nel Paese».

Da questi frammenti di dichiarazioni ufficiali - in assenza di un paper tecnico molto atteso ma non ancora rilasciato - si intuisce il tema di fondo, che è di difficilissima gestione: la tassa globale esigerebbe una “lingua” fiscale unificata, una sorta di esperanto tributario che non esiste in natura (ogni Paese ha la sua tradizione e i suoi istituti), oltre a dei parametri di funzionamento omogenei che non rispondono alla semplice equazione del prelievo fissato al 15 per cento.

Chiunque abbia a che fare con i bilanci consolidati, a cominciare dai tax payer locali delle multinazionali, sa benissimo che il bilancio civilistico e quello fiscale non hanno quasi nulla in comune già in una singola amministrazione, figurarsi nelle restanti 135 o 139 con le quali ogni fiscalità dovrà interfacciarsi. E ciò anche a voler prescindere dalle singole partite “nazionali” sui singoli asset, dai dividendi alla doppia tassazione, dalle liberalità (trattamento fiscale delle) fino alle plusvalenze: il terreno di gioco è davvero molto complicato, e non è chiaro se e quale impostazione o linguaggio legislativo avrà la meglio sugli altri, e in forza di quale argomento persuasivo.

In questo contesto è da leggere infine anche il ruolo degli Stati Uniti, che da 15 anni (cioè da quando hanno dovuto affrontare per la prima volta il “bisogno” fiscale, dopo la crisi dei subprime) hanno assunto il ruolo di leader mondiali pure e nel risiko tributario. Solo pochi mesi fa il presidente Joe Biden, sulle ali dell’«America is back» post trumpiano, aveva imposto un’accelerazione decisiva al cantiere dell’Ocse snobbato dal predecessore, lui sì autore di riforma fiscale autocentrica se non proprio davvero autarchica. Ma oggi paradossalmente proprio le difficoltà che Biden sta incontrando al Congresso nella controriforma fiscale rischiano di ripercuotersi fatalmente sulla roadmap della tassa globale. Segnali di ammorbidimento già si intravedono chiari, con lo stop al raddoppio sulla tassazione degli intangibles rimpatriati (che Biden avrebbe voluto portare al 21%) e con le difficoltà a rialzare l’aliquota Cit (sulle società) drasticamente decurtata da “The Donald”. Se non riuscirà a essere profeta in patria, come potrà Biden guidare l’inasprimento della pretesa fiscale sul resto del mondo?