Imposte

Mutuo prima casa, la detrazione degli interessi passivi tiene conto dei termini sospesi nel lockdown

L’immobile deve diventare dimora abituale entro un anno dal rogito maggiorato della causa di forza maggiore

di Marcello Tarabusi

L’emergenza epidemiologica blocca la decadenza dalle agevolazioni Irpef per la prima casa, se il mancato rispetto del termine per il trasferimento della residenza è dovuto alla pandemia.
La circolare 7/E del 25 giugno considera il Covid-19 una causa di forza maggiore che può impedire il rispetto di termini di decadenza. Varie agevolazioni Irpef sugli immobili prevedono che il contribuente, per poterne fruire, debba compiere determinate azioni entro un termine perentorio. È il caso, ad esempio, degli interessi relativi al mutuo prima casa, per cui il contribuente deve destinare l’immobile a dimora abituale propria o dei propri familiari entro un anno, decorso il quale decade dal beneficio. L’agenzia delle Entrate osserva che tale destinazione richiede l’espletamento di attività (trasloco, acquisto mobili, spostamento di persone) rese difficoltose dai divieti di spostamento imposti in base ai vari Dpcm susseguitisi nel corso del 2020. Il contribuente conserva quindi il diritto alla detrazione degli interessi a patto che abbia adibito l’immobile a dimora abituale entro un tempo pari a un anno dal rogito, maggiorato della durata della causa di forza maggiore (dal 23 febbraio al 2 giugno 2020).

Tale principio – circolare 7/2021 – può ritenersi valido per tutti i termini previsti per adibirei l’immobile a prima casa, come ad esempio: due anni dal rogito per l’immobile oggetto di ristrutturazione; sei mesi dalla fine lavori nei mutui per la costruzione della prima casa; un anno dal rilascio dell’immobile acquistato locato o all’asta. Vale anche per il termine di un anno per stipulare un nuovo contratto di locazione, in caso di risoluzione prima di otto anni del precedente contratto su un immobile acquistato con deduzione delle spese di acquisto o costruzione in base al decreto Sblocca Italia.

L’Agenzia parla di «forza maggiore», ma sembra riferirsi al solo «factum principis», ossia il provvedimento dell’autorità pubblica che ha imposto le restrizioni di movimento. Tuttavia, a ben riflettere, vi sono circostanze legate al Covid-19 che potrebbero rientrare tra le cause di esclusione dalla decadenza, pur senza essere direttamente collegate al periodo di confinamento.

Le Sezioni Unite della Cassazione, nella sentenza n. 8094/2020, hanno affermato una regola generale dell’ordinamento, collegata anche al principio costituzionale di buona amministrazione, di cui all’articolo 97 della Costituzione, per cui non può essere preteso un comportamento quando lo stesso sia divenuto impossibile senza responsabilità di chi vi sia tenuto. Si pensi, ad esempio, al caso del contribuente che, per un lungo periodo a cavallo dello spirare del termine, sia stato ricoverato in terapia intensiva o subintensiva dopo aver contratto l’infezione (al grave stato di malattia ha fatto riferimento in passato la Cassazione nelle sentenze 17225/2017 e n. 797/2020); oppure all’ipotesi in cui nell’impresa appaltatrice sia scoppiato un focolaio che abbia imposto la quarantena a tutti i dipendenti, impedendo l’ultimazione dei lavori. Sono tutte circostanze imprevedibili e, sempreché abbiano realmente impedito al contribuente di rispettare il termine, idonee a sospenderlo per tutta la durata dell’impedimento.

Con una differenza: se i Dpcm hanno effetto per tutti i contribuenti e, pertanto, tutti i termini in corso dal 23 febbraio al 2 giugno 2020 sono considerati “sospesi”, in caso di altre cause di forza maggiore legate alla pandemia – e insorte anche nei mesi successivi – il contribuente dovrà dimostrare, specificamente, l’imprevedibilità ed insuperabilità della limitazione, e la sua effettiva durata.

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