Nella vicenda Taricco vince la certezza del diritto
Si chiude, senza possibili strascichi e divergenze interpretative, la «saga Taricco», generata dall’idea che si potesse disapplicare la normativa interna in punto di prescrizione dei reati per rendere effettiva la repressione penale in materia di frode fiscale.
Una vicenda complessa e articolata: all’originario rinvio pregiudiziale del giudice italiano ha fatto seguito una prima pronuncia della Corte di giustizia (8 settembre 2015, C-105/14, Taricco); questa ha innescato due questioni di legittimità costituzionale, alle quali la Corte costituzionale ha risposto – con i toni garbati, ma fermi dell’ordinanza 24 del 2017 – sollecitando nuovamente il giudice di Lussemburgo, che a sua volta ha replicato stemperando contenuti ed effetti della prima rivoluzionaria sentenza Taricco (sentenza 5 dicembre 2017, C-42/17, Mas).
All’esito di questo tortuoso percorso, la Corte costituzionale – cui era dunque tornata la questione - ieri ha chiuso il cerchio: con una pronuncia che rigetta le questioni sollevate giudicandole però rilevanti e perciò intervenendo, in modo limpido e tranchant, sulle problematiche ancora aperte.
Tutte problematiche di notevole spessore, in effetti, perché la sentenza Taricco era apparsa non solo un episodio di judicial adventourism capace di alterare il “caos calmo” dei rapporti tra ordinamenti, ma una decisione in urticante contrasto con le diverse istanze del principio di legalità penale: l’irretroattività, messa in crisi da una estensione del tempo di prescrizione post factum; la tassatività e determinatezza, ferite da un “regola pretoria” che assegnava al giudice il potere di disapplicare la disciplina della prescrizione qualora ritenesse la stessa causa di impunità “in un considerevole numero di casi di frode grave”; la riserva di legge e, a monte, la sottoposizione del giudice alla legge e la stessa separazione dei poteri, cardini del sistema costituzionale italiano, ispirato al modello di civil law.
Talune problematiche erano state, per vero, neutralizzate dallo stesso giudice comunitario, e tra queste quelle che avevano dato origine alle questioni di costituzionalità, cosicché la Corte costituzionale avrebbe anche potuto disimpegnarsi con un elegante glissé: così non ha fatto, tuttavia, dimostrando di aver ben chiara la “cifra politica” della partita in gioco.
«Evidente – per la Corte – il deficit di determinatezza che caratterizza sia l'art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE (…) sia le “regola Taricco” in sé», e tale da determinare l'assoluta mancanza di prevedibilità della punizione per il singolo.
Su simili basi, rileva la Corte, la punibilità verrebbe in sostanza a dipendere da una interpretazione del giudice non prevedibile e comunque “paralegislativa”, e ciò contrasta con «l'imprescindibile imperativo che simili scelte si incarnino in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati».
Che lezione può trarsi, dunque, dalla saga Taricco? Che la confusione tra ordinamenti, il rutilante cammino verso l’armonizzazione e con esso il principio di prevalenza del diritto della Ue non possono mai giungere a mettere in discussione le garanzie fondamentali in ambito punitivo, perché su esse poggiano le architravi dello Stato di diritto. Legalità e certezza del diritto in campo penale vengono prima, e più in alto; anche in materia di prescrizione, che è «sostanza della legalità penale, e non semplice morte del processo».