Imposte

Parigi tassa al 3% il fatturato della digital economy realizzato nel Paese

di Riccardo Sorrentino

L’ultima, per ora, è la Francia. Oggi la taxe Gafa, come viene chiamata a Parigi, diventa però uno degli esempi presi in considerazione dall’Ocse nella sua proposta di tassazione uniforme sui grandi gruppi internet.

La web tax francese è stata approvata a luglio. Impone alle grandi imprese di internet con un giro d’affari complessivo di almeno 750 milioni di euro, dei quali almeno 25 generati in Francia, il pagamento di un’imposta pari al 3% del fatturato realizzato nel paese. A essere chiamate al versamento sono le imprese attive nel settore della pubblicità e in quello dei servizi di intermediazione digitale al consumo; e l’imposta non è stata disegnata in modo da penalizzare solo i gruppi stranieri: anche alcune aziende francesi - a volte di proprietà straniera, però - ricadono nelle maglie della nuova legge. Tra queste la Criteo, attiva nel “retargeting” pubblicitario.

La taxe Gafa (acronimo per Google, Apple, Facebook, Amazon) ha suscitato molte critiche, e non solo quelle, ardenti, di Donald Trump sceso in difesa delle imprese tecnologiche Usa (che in genere non lo amano e che lui non ama). Un motivo è nel fatto che Parigi è andata avanti, ha fatto da apripista proprio mentre - in sede Ocse - si tenta di dar vita a una normativa comune che sarà discussa al G20 del 17 ottobre. «La Francia è un paese sovrano, le sue decisioni su questioni fiscali sono sovrane e continueranno a essere sovrane», disse in quell’occasione - in risposta soprattutto ai tweet un po’ minacciosi di Trump - il ministro dell’Economia Bruno Le Maire.

Di fronte alle contestazioni, la Francia ha quindi mantenuto le proprie posizioni, impegnandosi però a modificare la legge una volta che sarà raggiunta un’intesa in campo internazionale.

Parigi, del resto, non è stata la prima a imporre una web tax. Una Google tax è stata approvata nel 2016 in Gran Bretagna che ora ha allo studio un’imposta più ampia, che colpirebbe con un’aliquota del 2% le imprese con fatturato superiore a 500 milioni di sterline (572 milioni di euro), dei quali 25 milioni (circa 29 milioni di euro) realizzati nel Regno Unito. Una legge simile era stata approvata in Australia, e preleva il 10% sulle vendite cross-border. È lunga inoltre la lista dei Paesi che impongono un’imposta indiretta (Iva o Gst) con un’aliquota specifica per i prodotti digitali o sulle aziende straniere.

La legge francese è però andata oltre questi tentativi, e ha imposto il nuovo principio della tassazione in base al fatturato ora adottato - come proposta - anche dall’Ocse insieme alla soglia dei 750 milioni di euro. Oggi anche il Canada e la Nuova Zelanda, oltre all’Italia, stanno varando una loro versione dell’imposta, con un occhio al modello francese. A Wellington si sta discutendo se optare per un’aliquota del 2 o del 3% mentre Justin Trudeau, in campagna elettorale - il voto federale canadese è previsto il 21 ottobre - si è rimangiato l’impegno a non introdurre una web tax preso nel 2015. Ora intende ricavare dalla nuova imposta 540 milioni di dollari canadesi (370 milioni di euro) l’anno prossimo, e 730 milioni nel 2021 (500 milioni di euro) nel 2021.

Solo un accordo internazionale può però definire l’altro problema creato dalle multinazionali digitali: quello della allocazione dei profitti, oggi in genere riconosciuti a una holding regionale (in Europa hanno spesso sede in Irlanda) anche se generati in altri Paesi.

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