Per l’aliquota fissa bisogna prima ridurre la spesa pubblica
Il lavoro dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl) sulla flat tax presentato su questo giornale da Nicola Rossi il 25 giugno ci obbliga a pensare in modo strategico all’insieme delle entrate e delle spese delle pubbliche amministrazioni e rende evidente quanto sia iniquo e inefficiente lo status quo . Ha il merito di fare i conti di tutte le proposte che vengono messe in campo senza mai utilizzare coperture di comodo o altamente aleatorie, come il contrasto all’evasione. Non da ultimo, rende chiaro il legame stretto tra la riduzione della spesa corrente e quella delle entrate, “domandandosi che cosa lo Stato debba produrre e come, e non limitandosi a chiedere che faccia un po’ meglio quello che già fa”.
La riforma proposta è ambiziosissima. Basti considerare che essa ridurrebbe il perimetro delle pubbliche amministrazioni di oltre 90 miliardi di euro, dal lato sia delle entrate che delle spese (tabella 6, pag. 63 della ricerca pubblicata da Ibl Libri: “Venticinque% per tutti. Un sistema fiscale più semplice, più efficiente, più equo” ). Con tale ambizione, sarebbe molto limitato lo spazio per altri obiettivi di politica economica, come ad esempio ridurre il disavanzo pubblico, aumentare gli investimenti pubblici o per le politiche di incentivazione a favore della ricerca e sviluppo delle imprese, oppure delle energie rinnovabili, oppure ancora per l’assunzione di giovani.
Come indicato di recente anche dalla Banca d’Italia, l’avanzo primario dell’Italia dovrebbe migliorare e collocarsi nel medio periodo attorno al 4% del Pil per consentire una riduzione adeguata del rapporto debito/Pil. Il che equivale all’incirca al pareggio del bilancio previsto dai trattati europei e dalla nostra Costituzione. Dato che l’avanzo primario era all’1,5% nel 2016, la strada da compiere sulla via del risanamento è ancora lunga e non sono consentite distrazioni. Questo significa che, anche prescindendo da qualunque considerazione di natura distributiva, l’Italia non può permettersi una riforma dell’Irpef che realizzi la flat tax. Anche con l’aliquota al 25% proposta da Ibl, e pur scontando l’eliminazione delle cosiddette spese fiscali, costerebbe quasi 40 miliardi. A maggior ragione l’Italia non può permettersi la flat tax al 15% proposta dalla Lega, il cui costo è stimato in 50 miliardi dagli stessi proponenti. Analogamente non si può permettere un trasferimento monetario agli indigenti - o “minimo vitale” - dell'ordine di grandezza proposto da Ibl, per un costo di ben 35 miliardi (pagina 65).
Tuttavia, al di là delle compatibilità macroeconomiche, appare attraente l’idea di semplificare il sistema fiscale italiano nel senso di ridurre il numero delle aliquote, eliminare per quanto possibile le spese fiscali, sostituire ai molti strumenti assistenziali di sostegno al reddito un unico sussidio universale. In effetti, quel modello è da molti anni il punto di riferimento implicito delle migliori proposte di riforma.
Nonostante l’indeterminatezza di alcuni passaggi, il merito specifico della proposta è quello di aver focalizzato anche sull’equità e non solo dell’efficienza. Secondo le stime degli autori, la riforma migliora il coefficiente di Gini e avvantaggia i percentili di reddito più bassi. Verrebbe così a cadere l’idea che aliquote marginali crescenti siano l’unico strumento per dare attuazione all’art.53 della Costituzione, secondo cui «il sistema tributario è informato a principi di progressività». Un’unica aliquota, abbinata ad una no tax area appropriatamente modulata, genererebbe progressività senza al tempo stesso avere gli effetti di scoraggiamento della fedeltà fiscale insiti in un sistema molto progressivo.
Va sottolineato però che gli effetti redistributivi della riforma non possono essere misurati solo a livello medio o macroeconomico. Vanno visti anche in relazione a singoli individui o gruppi sociali. Ad esempio, la proposta di eliminare quasi tutte le spese fiscali sul reddito delle persone fisiche, che ammontano a 36 miliardi, comporta la cancellazione delle agevolazioni per interessi passivi, ristrutturazioni edilizie, efficienza energetica, spese mediche, assegni familiari, fondi pensioni, casse sanitarie, polizze vita, borse di studio ecc.
Effetti distributivi ancora più importanti avrebbe la proposta di eliminare le spese a contenuto prevalentemente assistenziale, ben 64 miliardi di euro. A titolo di esempio, la misura riguarderebbe gli assegni sociali, le integrazioni al minimo delle pensioni, le integrazioni salariali, le prestazioni agli invalidi civili e quelle a non vedenti e non udenti, gli assegni al nucleo familiare e anche altre voci, come le pensioni di reversibilità, che non sono classificate dall’Istat come assistenza.
Una semplice elencazione di questi punti, alcuni dei quali hanno solide ragioni di merito, indica che una riforma globale del sistema di tasse e trasferimenti può essere fatta solo in periodi in cui lo Stato può permettersi di rischiare forti perdite di gettito. Inoltre, nelle condizioni attuali, si potrebbero produrre miglioramenti anche rilevanti in media, peggiorando però la situazione di platee vastissime di cittadini, che in quanto elettori potrebbero avere fortissimi poteri d’ostruzione.
Sembrerebbe pertanto più realistica una riforma che parta dalla riduzione della spesa e preveda un alleggerimento graduale della pressione fiscale, compatibile con l’obiettivo della riduzione del debito pubblico.
Lo studio Ibl ha il grande merito di porre il dibattito su solide basi scientifiche in opposizione ai facili slogan pre-elettorali che attualmente sembrano prevalere.