Quelle clausole di salvaguardia che danneggiano la compliance
Ciò che il Fisco dichiara in una fase del procedimento, potrebbe non valere in un’altra fase. O in un altro procedimento. O nel processo. È quanto si deduce da alcune clausole definite “di salvaguardia” dalla stessa Agenzia, utilizzate di recente nelle prassi delle direzioni provinciali, nell’ambito delle procedure di accertamento con adesione. Sono clausole che hanno formulazioni differenti e che non sembrano coerenti – a tacer d’altro – con l’articolo 10, comma 1, dello Statuto del contribuente: disposizione che prevede che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria siano improntati al principio della collaborazione e della buona fede.
Prendiamo ad esempio il contenuto di una di queste clausole: «Si precisa che, nell’ambito del presente contraddittorio, le parti si danno reciprocamente atto che qualunque valutazione espressa in ordine ai fatti e/o alla ricostruzione giuridica di essi così come qualunque proposta o controproposta di adesione/conciliazione/mediazione avanzata esplicano effetti soltanto nell’ambito del presente procedimento di adesione/conciliazione/mediazione al solo scopo di prevenire una potenziale controversia. Pertanto, quanto affermato nell’ambito del presente procedimento così come l’eventuale successivo atto di definizione per adesione/conciliazione/mediazione non può mai costituire accettazione, anche tacita, né di fatti controversi né dei principi di diritto affermati né può essere utilizzato come tale da qualunque altra autorità di controllo o giudiziaria».
In sintesi, è come se il Fisco escludesse l’utilizzabilità – contro di sé – di qualsiasi affermazione effettuata nel contesto di tale procedura. La ratio è intuibile, ed è quella di lasciare maggiore libertà di manovra all’amministrazione in una fase precontenziosa. Ma a questo punto sorgono due considerazioni. Da un lato, non si vede perché la stessa libertà di manovra non dovrebbe essere concessa anche al contribuente. Dall’altro, non si può tacere che questa impostazione stride con le regole del fair play cui si ispira lo Statuto: dopotutto, se un’affermazione non è veritiera, non dovrebbe essere fatta; viceversa, se è vera, non dovrebbe esserne inibito l’utilizzo. Fermo restando, ovviamente, che se affermazioni ritenute veritiere nel momento in cui pronunciate dovessero rivelarsi false nel corso del giudizio (o nelle fasi successive del procedimento) sarà sempre possibile farlo rilevare. Insomma, se l’obiettivo è la compliance, la strada delle clausole di salvaguardia non sembra il modo migliore per arrivarci.