Il CommentoControlli e liti

Reati Iva, la Cassazione confonde tra parte dichiarativa e liquidativa

Occorre evitare sanzioni per dichiarazione infedele su correzioni liquidative

di Raffaele Rizzardi

La sentenza della Cassazione 31367 depositata il 10 agosto (si veda l’articolo) indicava che la soglia di punibilità del reato di omesso versamento dell'imposta deve essere computato con riferimento all'ultimo rigo “imposta dovuta” (VL38 della dichiarazione), anche se il relativo risultato è stato alterato indicando nelle righe precedenti (nella specie la VL30, colonna 3) versamenti omessi come eseguiti.

Agli effetti di questo delitto (articolo 10-ter legge 74/2000) non rileva la prima nozione di Iva dovuta (rigo VL3), che attiene unicamente allo sbilancio tra le operazioni di competenza dell'anno di imposta.

Stando alla sentenza, per arrivare alla nozione rilevante per il versamento occorre tener conto di tutti i dati successivamente indicati dal contribuente, anche se non rispondenti al vero.

Allo scopo di chiarire la portata di una dichiarazione Iva (ma lo stesso discorso vale per i redditi) occorre distinguere tra:

• la parte dichiarativa per la determinazione dell'Iva dovuta o a credito per il periodo d'imposta, calcolata in relazione ai singoli quadri, sintetizzati nei codici VL1 – Iva a debito sulle operazioni attive o per le quali il contribuente è debitore di imposta (reverse charge) meno il codice VL2 – Iva detraibile;

• la parte liquidativa, che comprende tutti i codici successivi, nelle quali il contribuente non effettua nessuna dichiarazione, ma si limita a riportare elementi rilevanti e noti all'amministrazione finanziaria per il saldo da versare o da riportare all'anno seguente. Oltre ai versamenti, sopra ricordati, un elemento significativo riguarda il riporto a credito dall'anno precedente (VL8). Un'errata indicazione al riguardo non determina nessuna conseguenza dichiarativa, altrimenti si verrebbe a moltiplicare questo tipo di irregolarità, con le relative sanzioni.

Occorre evidenziare che nelle fasi iniziali dell'Iva si chiamava accertamento (in rettifica) la correzione di qualunque rigo della dichiarazione, e solo dal 1° gennaio 1999 viene introdotto l'articolo 54-bis della legge Iva, in rubrica «Liquidazione dell'imposta dovuta in base alle dichiarazioni», che consiste in un'attività di comparazione automatica tra quanto indicato in dichiarazione e quanto risulta nelle banche dati dell'amministrazione finanziaria.

Pensiamo proprio all'indicazione dell'entità dei versamenti: il contribuente può (inutilmente) scrivere quello che vuole in dichiarazione, ma se i pagamenti non sono stati eseguiti il documento predisposto dal contribuente viene automaticamente modificato, ed è significativo che il comma 4 dell'articolo 54-bis disponga che «i dati contabili risultanti dalla liquidazione prevista dal presente articolo si considerano, a tutti gli effetti (quindi anche penali, ndr), come dichiarati dal contribuente».

Uno degli scopi di questa disposizione è quello di evitare l'applicazione delle sanzioni per dichiarazione infedele nel caso di correzione della parte liquidativa della dichiarazione. In questo contesto l'assimilazione normativa dei dati rettificati a quelli dichiarati dal contribuente lascia perplessi sulla recente sentenza di Cassazione – peraltro adottata nell'ambito cautelare, dove è sufficiente il fumus di quanto prospettato dal difensore – secondo cui anche la parte liquidativa sarebbe invece di natura dichiarativa e quindi rilevante per l'illecito di questo genere e non per quello relativo al versamento.

In questo ambito segnaliamo un paio di recenti sentenze della Cassazione:

• 7 dicembre 2020, n. 27963: la sanzione per dichiarazione infedele assorbe quella per la conseguente insufficienza del versamento. Tornando ai codici della dichiarazione Iva la rettifica riguarda solo il rigo VL3, senza interferire sui successivi codici liquidativi e sul diverso saldo della dichiarazione;

• 7 febbraio 2019, n. 5934: il riporto dell'Iva da un anno all'altro, se non spettante, costituisce compensazione di crediti inesistenti nel modello F24 (reato dell'articolo 10-quater), in quanto ne ha gli stessi effetti.

La prima è sicuramente condivisibile, mentre non ha alcun fondamento la seconda, che peraltro conclude con la nemesi di molti giudizi penali: reato estinto per prescrizione.