Professione

Redditi delle professioniste: pesa un divario del 35%

In 10 anni guadagnati solo 5 punti rispetto agli uomini (e tra l’altro è solo una “illusione ottica”)

di Flavia Landolfi e Valeria Uva

C’è una zavorra pesante a inchiodare verso il basso la bilancia dei redditi delle professioniste rispetto ai colleghi uomini. In media vale il 35% in meno. Lo rileva un’indagine condotta dal Sole24Ore sulla base dei dati delle principali Casse professionali: i numeri fotografano le entrate dichiarate dalle varie categorie nell’evoluzione tra il 2010 e il 2019, esclusi i notai perché hanno un sistema previdenziale a ripartizione.
Non tengono conto dei livelli occupazionali né tantomeno delle ore lavorate che nel caso delle professioniste è una variabile che pesa fortemente sui redditi annuali. E che vale comunque la pena di leggere in controluce sulla base degli altri indicatori disponibili che riguardano il fenomeno in Italia.Secondo un rapporto Ocse nel 2019 il divario sulla paga oraria lorda si aggirava intorno al 5,6% (ma senza nessun altro parametro, nemmeno i contratti full e part time). Secondo Eurostat (2018) invece in Italia il settore pubblico si aggirerebbe intorno a un gap del 4% e quello privato del 20 per cento. Nella Ue il pay gap si attesta invece a quota -16%, ragione per cui la Commissione europea ha deciso di intervenire con una direttiva ad hoc.

IL DIVARIO NEGLI ULTIMI 10 ANNI

La carriera mancata
Non è monolitico, però, questo divario: si riduce in fase di avvio della professione, nella fascia tra i 30 e i 40 anni d’età, sia rispetto alla media complessiva che, soprattutto, rispetto alla fascia tra i 50 e i 60 anni d’età che in genere segna l’apice della carriera.
«Sono dati impressionanti - dice la sottosegretaria al Mef Maria Cecilia Guerra - dai quali emerge che il divario di reddito maggiore nelle fasce di età più avanzate è il segno dell’incepparsi della progressione della carriera per le professioniste per effetto del noto soffitto di cristallo».

Guerra indica poi nell’assegno unico alla famiglia ora in discussione al Senato per il perfezionamento della legge delega «un buon segnale per il sostegno alle famiglie ma non sufficiente: per superare i divari di genere è necessario proseguire su due punti fermi contenuti nel Recovery Plan del governo Conte: asili nido e altre infrastrutture sociali e valutazione dell’impatto di genere di tutte le politiche». Il gap salariale troverà spazio anche nel documento finale dell’engagement group Women 20 al G20 che si chiuderà a luglio.

«Il gender pay gap è alimentato da una discriminazione esplicita, quella di una minore retribuzione a parità di lavoro - dice la presidente Linda Laura Sabbadini che è anche direttrice dell’Istat - ma è anche il punto di sfogo di tutti gli ostacoli che le donne incontrano nel percorso professionale e che si traduce, per esempio, nel part time forzato e nella sospensione più o meno lunga dell’attività lavorativa».

Il gap 2010-2019
Facciamo un passo indietro. A guardare i numeri delle professioni, in dieci anni il divario tra i redditi si è attenuato: nel 2010 in media valeva il 40%, ovvero se un uomo poteva contare in media su 43mila euro di reddito annuo, la sua collega non arrivava a 26mila. Nel 2019 (ultimo dato disponibile) si è registrato un lieve incremento medio femminile, mentre nel decennio la crisi per gli uomini ha mandato in fumo più di 2.600 euro (-6%). Le donne, dal canto loro, hanno ecuperato il 2%, ma comunque appena sopra i 26mila euro di reddito medio complessivo. Da qui l’ “illusione ottica” di un progresso femminile, che a ben guardare è davvero poca cosa.
Le prime a fare le spese del maggior divario di reddito sono le avvocate, peraltro diventate maggioranza nella professione, che dopo un decennio continuano a guadagnare meno della metà rispetto ai colleghi uomini. «Il gap è considerevole e strutturale ormai, nonostante il crescente potere di rappresentanza femminile all’interno delle istituzioni di categoria - dice Susanna Pisano, consigliera di Confprofessioni e avvocata -. Il dato è frutto anche della tendenza a scegliere settori poco redditizi, come il diritto di famiglia, nell’illusione che siano quelli più facilmente conciliabili con la vita privata».
Male anche commercialiste e ingegnere (entrambe distanti 45 punti percentuali). Chi ha capovolto il gap è la categoria delle biologhe, ma questo è soprattutto dovuto alla tumultuosa femminilizzazione (+49%).

Redditi assottigliati
Che la crisi economica abbia colpito più duro sui redditi relativamente più alti degli uomini è evidente anche nelle professioni tecniche. Gli architetti hanno perso più di duemila euro, mentre le architette hanno mantenuto la posizione. Restando però inchiodate ai 16mila euro di media. Andamento simile anche per gli ingegneri, professione in cui gli uomini hanno perso nel decennio il doppio (-6%) rispetto alle donne .
«In realtà la crisi dell’edilizia ha colpito in modo indistinto entrambi i sessi con lo stop ai grandi cantieri, e alla committenza privata strutturata - commenta il direttore del centro studi del Consiglio nazionale ingegneri, Massimiliano Pittau – ma le donne sembrano più reattive, ad esempio sono le prime ad associarsi e a creare società di ingegneria».
Secondo Tiziana Stallone, presidente dei biologi di Enpab, il minor pay gap delle giovani è ancora in parte legato alla vita privata: «Nella prima fascia d’età molte donne non hanno ancora i figli e possono quindi dedicarsi di più al lavoro».

Effetto monocommittenza
C’è però anche un altro fenomeno che impatta:  quello della “monocommittenza” ovvero le tante “partite Iva apparenti”, di fatto “dipendenti” strutturalmente dagli studi, ricompensate con importi fissi, ma penalizzate nella progressione di carriera e dunque nel reddito . Una situazione che coinvolge più donne che uomini. Lo dicono in controluce i numeri dell’ultimo rapporto Adepp. Si vede quando fatturato e reddito coincidono. «Succede quando non ci sono spese fisse di studio - aggiunge Stallone che è anche vicepresidente Adepp - e quando di fatto si viene ricompensati con un fisso: ebbene le professioniste in questa situazione, giovani soprattutto, sono molto di più rispetto agli uomini». E ancora: «Credo che le donne rinuncino ad essere manager di sé stesse solo per un fatto culturale - dice Stallone –. Grava ancora su di loro la responsabilità principale del carico familiare che assorbe tanta energia».
Il fenomeno, c’è da scommettere, non si attenuerà. Anzi. La pandemia, i lockdown, la didattica a distanza e lo smartworking hanno colpito più duro sulla metà della popolazione: quella che partiva già svantaggiata. Le donne, appunto.

Gli aiuti alla famiglia

Di seguito una breve panoramica del welfare delle Casse previdenziali per la genitorialità

L’indennità di maternità
In attesa dell’assegno unico per i figli esteso alle professioniste dal Ddl Family act, sono le Casse private (e i loro iscritti) a farsi carico degli oneri per l’indennità di maternità. A tutte le professioniste va l’80% di 5/12 del reddito dichiarato due anni prima. L'indennità spetta anche in caso di adozione o aborto

Il bonus bebè
Molte casse integrano l’indennità di maternità con contributi propri alla nascita. Alle commercialiste, ad esempio, va un assegno pari a circa un mese in più di indennità e non inferiore a 1.775 euro. Ai medici è riconosciuto un assegno di 1.500 euro per il primo anno di vita del bambino. Tremila euro l’importo concesso da Eppi ai periti industriali per nascita, adozione o affidamento

Il contributo paternità
Più di recente alcuni enti previdenziali hanno voluto estendere i bonus anche agli iscritti divenuti papà. Così agli psicologi è riconosciuto un assegno di mille euro (anche alle coppie omosessuali) . Ai biologi Enpab versa un contributo di paternità una tantum di 2mila euro (e copre la metà della retta dell’asilo nido). Cassa forense concede l’indennità di maternità per i padri monogenitoriali, ovvero unici ad aver riconosciuto il bambino nato. Altre forme di sostegno riguardano, per tutti, i figli disabili.

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